LOBODILATTICE

Focus on cultural worker // L’arte terapeutica di Tiziana Tacconi, una nuova pratica dell’arte contemporanea

Avere cura di se stessi attraverso l’arte. E’ questo il principio basilare dell’ “arte terapeutica”, metodo e disciplina artistica fondata dall’artista e docente Tiziana Tacconi che condurrà, dal 29 al 31 maggio, nell’ Ex Monastero di Santa Chiara a Mola di Bari - sede distaccata dell’Accademia di Belle Arti di Bari - il workshop “Incontri-amo. Opera condivisa - Esperienze di terapeutica artistica”. L’incontro, che inizia il 29 maggio alle 14, è a cura delle docenti dell’Accademia di Belle Arti di Bari Antonella Marino e Maria Vinella, e s’inserisce all’interno dell’iniziativa in corso in Accademia “Sensibili alla bellezza”, curata dal docente Graziano Menolascina e che prevede laboratori aperti di formazione e ricerca. La nuova pratica dell’arte contemporanea di Tiziana Tacconi sfocia in un peculiare metodo di “Terapeutica del colore”, volto alla libera espressione creativa attraverso l’ “opera condivisa”, un’opera collettiva e “sociale” che, secondo la docente, rappresenta una rivoluzione nel sistema dell’arte, perché oltrepassa l’individualismo dell’artista singolo. Già docente dell’Accademia di Belle Arti di Brera, Tiziana Tacconi ha fondato nel 2004 il Biennio Specialistico in Teoria e Pratica della Terapeutica Artistica. Attualmente conduce il Biennio di Terapeutica del Colore alla scuola Lista di Milano e ha realizzato diverse esposizioni di “opere condivise” in istituzioni pubbliche e private, ma anche in reparti ospedalieri, scuole, carceri, piazze e teatri. Lobodilattice l’ha intervistata per approfondire questa disciplina che ha particolari ripercussioni a livello sociale.

Tiziana Tacconi, cos’è l’arte terapeutica?

Sono un’insegnante di anatomia artistica e dal 1989 ho insegnato all’Accademia di Belle Arti di Brera, dunque c’era già, nel mio percorso di ricerca, un discorso sul corpo, su un corpo sensibile, un corpo fenomenologico, non sull’anatomia tradizionale dal punto di vista leonardesco. Poi, oltre a questa ricerca sul corpo, ero molto afflitta dal fatto che tantissime studentesse di sesso femminile con grosse potenzialità lasciassero gli studi per dedicarsi ad altre cose: alla famiglia, al lavoro, eccetera. Ho al mio attivo anche un’esperienza giovanile di undici anni come insegnante di sostegno e, sul piano politico, ho lottato per far sì che i disabili entrassero nella scuola. Dopo tante esperienze, ad un certo punto ho invece ripreso in mano solo la mia parte artistica e mi sono ritrovata a fare, naturalmente, l’insegnante in Accademia, in anatomia artistica. Allora, tutte queste cose messe insieme mi hanno fatto pensare che, forse, coniugando la parola “arte” con il termine “terapia” ci sarebbe stata una nuova possibilità di ricerca per questi ragazzi. Sapevo che gli studenti e le studentesse si sarebbero iscritte a questo percorso con l’intenzione un po’ di fare le crocerossine, ma poi la mia intenzione era quella di fargli capire che il problema era diverso e che c’è una possibilità di portare l’arte a tutti.  Ci vuole una nuova sensibilità dal punto di vista artistico, e non bisogna essere troppo legati al sistema ma è necessario aprirsi al sociale, in un modo diverso. E quando finalmente c’è stata la possibilità di aprire questo biennio specialistico, l’ingresso da parte delle donne è stato altissimo. E l’ho aperto nel 2004. La scelta di chiamarla “arte terapeutica”, anziché “arte terapia” deriva dal fatto che, etimologicamente il termine “terapeutica” traduce l’avere cura di sé con l’arte. Invece l’espressione “arte terapia” indica l’arte che cura. Il concetto di cura, dal punto di vista dell’etimo greco, è lo stesso, però era molto più preciso intendere “l’avere cura di sé con l’arte” rispetto all’arte che cura, perché oggi noi, quando pensiamo alla cura pensiamo alla malattia, a una possibilità di guarigione. Invece, attraverso questo nostro progetto intendevamo avvicinare le persone all’arte, spingendole a prendendosi cura di loro stesse. E, appena siamo partiti, c’è stata questa bellissima opportunità. Ma anche drammatica, visto che sono arrivata in oncologia perché mio padre aveva un cancro, ma allo stesso tempo bellissima perché, in un anno di lavoro in oncologia, ho avuto la possibilità di riflettere su che cosa fosse la condivisione. Dunque ho fondato l’ “opera condivisa”.  

In cosa consiste l’ “opera condivisa”?

L’opera condivisa è un po’ il cavallo di battaglia della terapeutica artistica, perché poi, da lì a 20 anni abbiamo lavorato in tutte le realtà sanitarie, nelle carceri, nelle associazioni.

Portando l’arte contemporanea nel sociale…

Si, e l’opera condivisa è un’esperienza straordinaria perché porta con sé un progetto fatto su misura. Per esempio, lavorare in oncologia o lavorare in pediatria significa fare scelte di materiali diversi. Bisogna infatti pensare a questo progetto come al vestito che viaggia su misura sul corpo: anche se si tratta di un’opera d’arte, l’obiettivo da raggiungere entra nel sociale con tutta una serie di varianti: quale materiale usare, che tipo di tecnica adottare. Ad esempio, quando sono stata in carcere, nel reparto femminile, di fronte all’abbrutimento di queste donne decisi di realizzare un lavoro sulla bellezza. Abbiamo così scelto dei tessuti meravigliosi, coloratissimi, perché pensavamo che l’unica possibilità di incontro dal punto di vista anche pratico fosse quello di lavorare su qualcosa che sapessero fare, coniugando questo con tutta una metodologia di aiuto. Dunque realizzare delle strisce per poi tagliarle, ad esempio, rendeva il lavoro condiviso: non era più solo “mio”, ma diventava “nostro”, perché la condivisione nell’arte ha un significato di relazione, unendo le persone di ogni età. E tutto ha funzionato benissimo.

Come si è evoluto il progetto?

Andando avanti negli anni mi sono posta il problema del lavoro di queste persone, nel senso che, comunque, la figura dell’artista-terapista che abbiamo fondato a Brera doveva anche trovare una possibilità di lavoro nel sociale. Non è facile vivere d’arte. Dunque ho cominciato a fare un altro percorso, ma anche quello è venuto fuori dopo, in 20 anni, quando sono andata in pensione, che riguarda il lavoro individuale con la terapeutica del colore. E’ un metodo che ci insegna a sviluppare una creatività soggettiva, perché il colore è un percorso molto emotivo e porta ogni soggetto a viverlo diversamente. E anche questo è un altro percorso che sto affrontando con la scuola di psicoterapia junghiana di Milano, che si chiama Lista. La scuola e il biennio specialistico a Brera è nato con tre facoltà: l’Accademia di Belle Arti, la Scuola di Psichiatria di Pavia e Scienze dell’Educazione della Bicocca. Avevamo quindi professori psichiatri che provenivano dalla facoltà di Psichiatria o professori pedagogisti che provenivano da Scienze dell’Educazione della Bicocca. Attualmente non si sa  cosa voglia fare il Ministero di questa scuola, però di fatto è una laurea magistrale, e questo è molto bello.

Abbiamo infatti creato nella scuola delle discipline che prima non c’erano: Principi e tecniche della terapeutica artistica, Tecniche espressive integrate, Pratiche creative per l’infanzia, Storie e modelli dell’arte terapia. Sono tutte discipline entrate nella declaratoria del Ministero. Quindi, effettivamente, vanno a concorso: è un biennio specialistico a tutti gli effetti. Nel percorso, inoltre, gli studenti dovevano fare 150 ore di tirocinio e comunque il nostro modo di intervenire nel sociale era molto diverso dalle scuole di arteterapia, quelle tradizionali.

Puoi spiegare la differenza tra arte terapia e arte terapeutica?

E’ molto semplice, perché l’arteterapia nasce nei primi anni del secolo nei manicomi in Germania, con l’illuminazione di alcuni psichiatri che finalmente capirono che un paziente psichiatrico trovava modo di calmarsi attraverso l’arte, e che l’arte era un sedativo. Poi, nel tempo l’arteterapia ha “traslocato” dalla psichiatria alla psicologia. Chi ha sempre tenuto in mano il filo del discorso sono stati sempre gli psicologi, chiamiamolo il mondo della psiche. E mi son detta “ma perché bisogna chiamare arteterapia qualcosa che oggi non ha più niente a che vedere con l’arte?” Perché i primi fautori di questo linguaggio, che sono andati poi a finire nell’Art Brut, erano artisti veramente matti. Oggi, se tu lavori con un malato psichiatrico, con i farmaci che ci sono, non devi pensare che l’arte sia un sedativo ma che l’arte è uno stimolante, perché i pazienti sono già sedati dai farmaci. Se non sei propositiva, se non conosci il linguaggio dell’arte fino in fondo, le cose che vengono fuori sono cose, non voglio dire brutte ma lo sono, insomma. Invece il discorso della terapeutica artistica era proprio, ed è proprio questo: avere cura di sé con l’arte, che  significa che l’individuo decide di prendersi carico di se stesso e di usare l’arte. Dunque c’è già una buona intenzione da parte di chi entra nel merito di questo percorso. Poi l’opera condivisa porta con sé una grande rivoluzione: non è più l’opera di Tiziana Tacconi ma è l’opera dei pazienti di oncologia e l’opera di chi posso nominare nominalmente. Se realizzo un mandala in piazza e ci sono 100 persone che posso nominare, l’opera condivisa è stata realizzata da quelle 100 persone. Quindi avviene una rivoluzione anche nell’ottica del sistema dell’arte, che porta a non riconoscere più questo atto egoico dell’artista individualista. L’arte terapeutica non è più un fatto individuale ma è un fatto sociale.  Ed è giusto che, nel momento stesso in cui le persone coinvolte producono un viaggio di creatività che sfocia in un’opera, siano ricordate. Altrimenti, se tutto questo fosse il mio lavoro, fosse la mia opera, avrei la sensazione di buttare la sensibilità di queste persone con le quali mi metto in contatto. Non lo trovo corretto. Dunque l’opera condivisa, da questo punto di vista ha avuto come punto di forza quello di non essere mai rubata. Tutto il resto, invece, ce l’hanno preso, è stato molto utilizzato. Ma va bene, se le cose se poi sono stimolanti è giusto che qualcuno ne prenda carico.

Ci puoi parlare di questo workshop che terrai all’Accademia di Belle Arti di Bari?

All’Accademia di Bari hanno aperto, nel Dipartimento di Didattica dell’Arte, un percorso, un biennio di arteterapia (chiamata così ma va bene lo stesso). Al suo interno, però, ci sono le discipline della terapeutica artistica, oltre ai principi e tecniche della terapeutica artistica. Quindi ci sono i nostri “figli”. Gli studenti dell’Accademia di Bari inizieranno un tirocinio in oncologia, quindi mi fa molto piacere dar loro delle indicazioni su come ci si deve comportare all’interno di un reparto oncologico, o su quale tipo di lavoro si può realizzare insieme. E sono felice che Antonella Marino mi dia questo spazio, perché si tratta di una nuova proposta, di un nuovo linguaggio artistico, di una proposta di lavoro. E sono molto fiera di questo, perché, in un mondo come quello artistico l’unica possibilità offerta è l’insegnamento (ed è diventato difficilissimo). Poi sappiamo come il mercato dell’arte sia selettivo. Non “uno su mille ce la fa”, ma “uno su un milione ce la fa”. E, a tutti gli altri, voglio dire che c’è un mondo che ha bisogno di arte. Perché mai come adesso la gente sta male e mai come adesso l’arte è una risposta al malessere.

Tra tutte le esperienze che hai fatto, nel campo dell’insegnamento e innestando l’arte nel sociale, hai un ricordo indelebile che ti ha toccato a livello emotivo riguardante anche il risultato artistico le persone che hanno contribuito a realizzare quest’opera condivisa?

Si, sicuramente riguarda lo spazio oncologico, perché lavorando con gli ammalati oncologici ho perduto la paura della morte. Non so se è vero fino in fondo, certo è che i pazienti oncologici sono capaci di stare molto più vicino al dolore e affrontarlo con maggiore tranquillità.  Ho avuto la possibilità di conoscere persone che si sono aperte con me raccontandomi il viaggio che avrebbero fatto, non quello che avevano fatto prima, ma quello che avrebbero fatto in seguito. Sapendo di morire erano pronti a farlo, e questo per me è stato sicuramente un grandissimo insegnamento, il più grande in assoluto di questo percorso. Ma devo dire che ogni incontro è davvero una cosa meravigliosa, perché, come dicono i buddisti, abbiamo dentro di noi tutte le realtà delle vite. L’arte, da questo punto di vista, è terapeutica perché mette la persona a nudo. La persona si apre, non solo verbalmente, ma anche mentre lavora, perché è da come lavora che io riconosco la persona, da come usa il corpo, le mani, i colori, più rispetto a ciò che dice. L’arte è un linguaggio muto ma è autentico, infatti io dico sempre ai miei studenti che non bisogna essere originali, bisogna essere autentici.

Anche perché poi il pubblico, il fruitore se ne accorge, nel senso che quando si crea un’opera d’arte di qualsiasi tipo, ci si accorge di quanto l’artista sia andato nella profondità di se stesso, e non si può mentire su questo.

E’ questa la vera bellezza, sai? E’ questa. La bellezza dell’arte non è il prodotto esteticamente piacevole, ma è riconoscere nel lavoro dell’altro qualcosa che ti appartiene. Perché è questo il transfert: ti emozioni perché contieni quella parte dell’altro, che suscita in te qualcosa che già possiedi e che si chiama bellezza.

L’artista autentico arriva a toccare il mondo dell’archetipo, la mente universale, l’inconscio collettivo e, anche se il fruitore non ha gli strumenti culturali per comprenderlo, l’artista vero arriva lo stesso a toccare l’inconscio. Quindi, a mio avviso, la funzione dell’artista è molto importante, e non parlo solo dell’arte visiva ma di tutte le arti…

Certo, e per questo che l’arte è al di là dello spazio e del tempo. Perché, ad esempio, gli australopiteci comunicano ancora con noi…perchè fondamentalmente siamo in contatto con l’Assoluto. L’arte è come Dio, è l’amore… sono delle dimensioni universali, e questa è la grande bellezza di cui ha bisogno il mondo. Ecco perchè penso si debba portare avanti questo percorso, e sforzarsi di uscire dalla propria individualità per creare una cultura molto più aperta, molto più diffusa. Questo è importante. L’arte è cultura e bisogna imparare a trasmetterla non solo all’interno delle scuole. Anche perché ho dei dubbi che quella dentro la scuola sia la vera arte. Ho insegnato tanti anni e mi posso permettere di dire questo.

E’ affascinante provare a conoscere il mondo dell’artista, la sua poeisis…

Questo aspetto, come l’artista crea, viene spesso trascurato. Perché si parla del prodotto finito da tanti punti di vista ma non si parla mai di come ha lasciato quel segno, quella traccia, quel corpo. E’ il corpo che parla. L’arte è un linguaggio muto ma il corpo è risonante perché risuona anche in chi lo osserva e guarda attraverso l’opera. Quindi questo è possibile, ma non è solo possibile, è necessario in un mondo dove tutto si sta disgregando. E’ come la sabbia al mare che puoi sempre recuperare. E puoi ancora ricostruire mille castelli, questa è l’arte. Non si disgregherà mai. Ha questa forza, questa “memoria della montagna”, come il granello della sabbia.

Anche se il sistema non dà molto valore all’artista che ha invece una funzione fondamentale. A me dispiace vedere certe dinamiche nel mondo dell’arte…

E’ vero. Quello che dici è vero, però oltre al sistema c’è la vita. C’è il sistema dell’arte e c’è l’arte della vita. Si può anche scegliere l’arte della vita, noi siamo dei creativi, però questa nostra creatività viene subito, prestissimo, interrotta. Si può riattivare, tranquillamente, e far crescere questa una potenzialità che è dentro di noi. Ci vuole l’impegno, ci vuole sapienza. Anche chi si pone il problema di portare l’arte a tutti deve essere colto. Non siamo naif, non è un viaggio outsider, questo. E un viaggio di cultura sociale. Credo che in questo momento, così come abbiamo bisogno di pace, così come abbiamo bisogno di un tempo migliore, anche dal punto di vista atmosferico, abbiamo bisogno anche di un tempo umano migliore. E l’arte (visiva n.d.r.) da questo punto di vista, tra tutte le arti è quella più generosa. Tutte le arti possono fare molto, però è molto difficile diventare un musicista, è molto difficile diventare un ballerino, è molto difficile diventare un attore, un teatrante. Non è così tanto difficile, invece, trovare la strada per esprimersi attraverso i linguaggi figurativi, formali, dal punto di vista artistico. Non è così difficile: ci vogliono delle persone che decidono di fare, dei maestri. Io mi ritengo una maestra.

Come nell’arte maieutica socratica, tu comunque risvegli qualcosa che c’è già nell’individuo…

Certo, la mia è una scelta artistica, non è una scelta di benessere fine a se stesso, un passatempo. No, la mia è una scelta artistica, di cultura. Mi ritengo un’artista che sta facendo un percorso da maestra.

Ma tu sei anche artista visiva?

Si, sono un’artista, ho fatto parte di un percorso artistico in passato, ho lavorato nel movimento dell’arte gravitazionale, ho realizzato le mie mostre personali, creo installazioni. Ma, oggi come oggi la mia più grande arte è quella di portare l’arte a tutti. Ed è un linguaggio artistico questo, non è un fatto solitario, è un fatto culturale.

Però devi anche avere una sensibilità particolare, conoscere un po’ quei mondi che vai ad esplorare nel sociale, giusto?

Certo: io sono un’artista, sono una docente. Ho aperto un corso per formare gli studenti, per farli diventare degli artisti terapisti, e continuo ancora adesso a fare ricerca. Ed è una ricerca molto ampia. Quello che ho fatto in 20 anni a Brera la ritengo una specie di base, di fondamento, ma ora che su questa base voglio costruire. Non so se sarà una moschea, un grattacielo…non so cosa sarà, però vorrei realizzare qualcosa che diventi più solido, ecco. E’ il metodo, ora sto davvero costruendo il metodo.

Questo progetto è molto importante, perché ha una funzione sia artistica che sociale…

Sto scrivendo, sto scrivendo e ho tutto molto chiaro.  Faccio molti incontri online, tengo moltissime lezioni…Ora mi è tutto molto chiaro. Spero di avere tutto il tempo per lasciare una bella documentazione. Ora che ho raggiunto dei buoni punti di riferimento devo lasciare una documentazione di questa esperienza.

Quindi farai delle pubblicazioni?

Si, cercherò di tirare fuori una bella pubblicazione. Non so se sarà un manuale o se tratterò solo la parte teorica, ma sto scrivendo. Prima che io uscissi dall’Accademia di Brera, inoltre, abbiamo realizzato un libro che raccoglie un po’ di esperienze artistiche realizzate con i lavori esposti al Museo diocesano di Crema.