LOBODILATTICE

//Focus on artist// Il “realismo metafisico” nella poetica pittorica di Donato Carlà

L’approccio filosofico nella creazione artistica costituisce una delle caratteristiche basilari della poetica di Donato Carlà, che si è formato all’Accademia di Belle Arti di Brera. Per la rubrica “Focus on artist”, Lobodilattice ha approfondito la conoscenza del pittore salentino e del suo universo creativo attraverso una dettagliata intervista:

Nel tuo percorso artistico individui un primo periodo, dagli anni ’70 ai primi anni ’80 in cui, attraverso un linguaggio pittorico figurativo, ti dedichi prevalentemente ai ritratti di paesaggi e ambientazioni della civiltà contadina che caratterizza la storia della tua terra d’origine, il Salento. Dopo la frequentazione dell’Accademia di Brera, invece, la tua pittura cambia, assumendo caratteristiche assimilabili alla pittura metafisica. Qual è la genesi di questa trasformazione?

Sin da ragazzo ho avuto una naturale propensione per il disegno, che non era veramente tale, ovviamente, trattandosi di una quasi maniacale manipolazione di tratti di matita con riempitivi cromatici. Ricordo che mi veniva di copiare su supporti di ogni genere delle immagini di qualsivoglia natura, fotografiche e pubblicitarie ovvero naturalistiche. Ma quel che più ricordo di quelle mie prime pratiche di espressioni grafiche era che si collocavano in strategie didattiche che nella scuola elementare dell’epoca si svolgevano nella forma di “competizione” con premiazioni finali. E quanto più mi riusciva di copiare attendibilmente le immagini e gli oggetti proposti nelle gare, tanto più mi tornava indispensabile insistere nella ricerca di segni grafici con selezionati mescolamenti di colori che mi dessero certezza di approssimazione alla realtà da copiare.

E fu proprio lavorando sulle approssimazioni che si avviò il mio più autentico percorso che oggi, finalmente, mi viene riconosciuto come spontaneo e vero gesto autenticamente artistico. Ma come è noto la carriera di ogni artista si presenta cosparsa di riflessioni, di ansie, di sussulti luminosi e, perché no, anche di dolenti ristagni. E non è un caso se tali circostanze abbiano influito non solo sulla mia produttività artistica ma anche e soprattutto sulla mia espressività pittorica. E proprio quest’ultima è, dunque, sostenuta dalla coinvolgente esperienza espressiva maturata nell’ambito delle scuole di ogni ordine e grado. Quel fare e rifare percorsi che insieme costituiscono il segno di una ricerca continua verso una espressività mai del tutto compiuta, ha finito col segnare la mia esperienza che, con pudore e senza arroganza, rivendico come “esperienza artistica”. E mi gratificano le constatazioni di alcuni critici che mi hanno dedicato la loro attenzione (e considerazione), segnalando nella mia produzione qualcosa di  irregolare – un modo non continuativo che, alcuni in particolare, hanno inteso evidenziare scandagliando il succedersi delle mie stagioni, peraltro attribuendo talune insistenze e talvolta talune interruzioni alla necessità di completare i miei studi, come anche comprendendo l’inderogabilità di mei impegni personali.

Un percorso tortuoso e a tappe, dunque, a segnare l’arrivo ma anche la ripartenza per riprendere tecniche espressive o anche per intraprendere una nuova ricerca per la successiva stagione. Ed è evidente che, in un tortuoso tragitto, variabili e varianti hanno interagito nel gesto pittorico fino alla trasformazione del mio modo di pensare per immagini, sia per quanto attiene il contesto formale e rappresentativo che per l’approccio a riferimenti e contenuti culturali ed estetici. Non a caso, la narrativa degli anni ’70- ‘80, diciamo pure di prima maniera, ad un certo punto non riusciva più a soddisfare le mie aspettative di ricerca nell’ambito di una logica emozionale che sempre più ricercavo in quella dimensione del voler vedere oltre l’apparente realtà, tanto da allontanarmi sempre più da quel linguaggio pittorico figurativo con il quale avevo raccontato dei luoghi e della vita contadina della mia terra, il Salento. L’istanza di voler allargare il mio campo visivo alla sfera della ricerca pittorica, lontana dagli schemi di quel contesto ormai consolidato, mi allettava, ma nel contempo generava inquietudine e mi distraeva dal mio pragma artistico. Così l’opportunità la colsi dopo attente riflessioni e proprio in occasione di una mostra personale nel lontano 1983, dove in una virtuosistica recensione, lo scrittore e critico d’arte Mario De Marco, scriveva: “Donato Carlà è un giovane e promettente artista … la sua pittura, pur classificandosi ampiamente nell’ambito del genere figurativo-paesistico appare estranea alla tradizione rappresentativa locale che, com’è noto, sia pure attraverso la mediazione dei maestri salentini, affonda le sue radici nell’espressione tardo-ottocentesca di marca partenopea che per non pochi aspetti tiene conto della nuova figurazione, quella, per intenderci, espressa in Puglia da oltre un decennio da Walter Scotti e da Antonio Rolla con accenti iperrealistici…”.

Proprio il riferimento agli accenti iperrealistici divennero trazione e spinta per la trasformazione del mio modo di esprimere un nuovo pragma artistico. Così, dall’iperrealismo annunciato al pensar metafisico, il breve salto pose le basi per ampliare il mio cono ottico fino alla visione di un immaginario pittorico che ancora, per certi versi, era inesplorato, quello per intenderci non legato agli schemi tradizionali della riconosciuta e consolidata cornice figurativo-paesistico. Dall’incertezza alla presa di coscienza fu come liberarsi da una zavorra, e da lì a considerare il nuovo fu come approdare verso una siffatta trasformazione: la pittura metafisica. Quella scelta, però, non riguardò solo l’attività artistica. Infatti, lasciarsi alle spalle quell’esperienza comportò, di fatto e in quanto ancora studente, anche il trasferimento dall’Accademia di Belle Arti di Lecce a quella di Brera a Milano, dove il contesto accademico facilitò una consistente mutazione intellettuale (più ancora che culturale) che mi consentì di concludere gli studi di Brera con una tesi dedicata alla pittura metafisica, ovvero all’estetica del bello”. Un elaborato che, invero, dovette risultare in qualche modo provocatorio ma di certo fu anche interessante nei contenuti, come mi confidò (gratificandomi non poco) il relatore della tesi Miklos Nicola Varga. Ed oggi mi conforta il fatto che talune mie riflessioni sulla pittura metafisica di quegli anni, trovino un qualche riscontro nel pensiero che il filosofo Nick Zangwill riassume nel suo libro dedicato alla “metafisica della bellezza” (2001 Cornell University, Ithaca con traduzione del 2011 a cura di Christian Marinotti Edizioni s.r.l., Milano).

Quali sono stati i tuoi maestri e gli artisti che ti hanno maggiormente ispirato?

Spaginare e ricomporre il corpus letterario della Storia dell’Arte alla quale ho affidato con attenzione il mio interesse è stata la fatica che ho compiuto sin da ragazzo-apprendista, quando, accostatomi alle arti visive, ho cercato di padroneggiare sia con i contenuti che con le forme espressive delle opere che osservavo, seguendo la pista estetica di critici e storici accreditati. Pertanto, riassumerne le fasi di quanto esperito, oggi, diverrebbe solo un’operazione basata su dati mnemonici. E a dire il vero sono diversi gli artisti e le correnti che mi hanno interessato e con cui ho interagito profondamente, considerato che ogni autore che visitavo ha rappresentato un momento di esperienza e conoscenza fondamentale per la mia maturazione. Perciò, volendo ripercorrere il mio percorso formativo, distinguerei due momenti distinti e complementari: da una parte l’interesse per gli artisti sui quali la più totale ammirazione per le loro opere ha segnato un itinerario che mi ha condotto non solo alla conoscenza delle tecniche espressive e comunicative ma anche alla consapevolezza dei loro effetti culturali ed estetici. Insomma, il percorso che ho fatto nel tempo mi ha consentito di far pratica di un mestiere come anche di riflettere criticamente sui significati profondi e sulla loro filosofia, traghettati da forme e colori.

È il caso del mio impatto con l’opera di Giotto, del quale mi è subito apparsa chiara la versatilità, la capacità di rappresentare la realtà in modo profondamente umano e naturale, la sua attenzione meticolosa ai dettagli e la capacità di esaltare la bellezza delle figure e l'armonia nell’uso magistrale dei colori. Segue Sandro Botticelli, noto tra l’altro per opere come “La nascita di Venere” e “La Primavera”. Artista molto apprezzato per i suoi dipinti caratterizzati per la bellezza delle forme, per l’uso del colore, la sensibilità e per la capacità di interagire con la mitologia classica. Ma è anche il caso di Leonardo da Vinci, il visionario, l’artista incredibile che ha ridefinito l’arte e la pittura in modo inimitabile. E che dire di Raffaello, uno dei più importanti pittori del Rinascimento, per il padroneggiamento della prospettiva, per l’uso del colore e la perfezione delle figure umane. A seguire c’è poi Jacopo Carrucci detto il Pontormo; e Michelangelo Merisi da Caravaggio; Jacques Louis David, e tutti i grandi Maestri: da Monet a Van Gogh, da Seurat a Magritte, da Ernst a Mirò e Telemaco Signorini e Felice Casorati e Giovanni Fattori e Giuseppe Abbati. Né manca, nel mio percorso, un qualche sguardo curioso e interessato al realismo di Edward Hopper, caratterizzato da una solitudine ospitata in città svuotate, in cui le figure umane, in ordine sparso, occupano paesaggi urbani desolati. Ad un tale tema si correlano i salentini Walter Scotti, Antonio Rolla, Vincenzo Ciardo, Giuseppe Casciaro, che nei miei primi anni di formazione sono stati i suggeritori della mia originaria espressione.

Un riguardoso riferimento, però, va a Michelangelo Buonarroti, pensatore e autentico genio poliedrico dell'arte italiana, punto di riferimento per gli artisti e per tutti coloro che amano le arti visive. Resta per me il Maestro e Pensatore a cui “guardo” per la tecnica pittorica che mi ha sempre suggerito, sebbene devo ammettere che quel che insieme alla sua tecnica si intrecciò nel suo ammaestramento fu una sorta di “immaginario simbolico” che più tardi ho incanalato nella “quieta metafisica” di De Chirico. Con quest’ultimo mi sono sorpreso di avere una tale confidenzialità da ritrovarlo costantemente citato nei miei lavori,       da quelli più rappresentativi e paesaggistici a quelli più sognati e geometrici. Come a dire che mi ritrovai ad un bivio che ricomponeva il mio interesse per quel non visibile, per quel vedere oltre le cose fisiche, quell’oltre che a volte ritroviamo al di qua di ogni percezione e fin dentro alle sensazioni: ineludibile attenzione e sensibilità per poter cogliere il bello che l’anima delle cose nasconde alla nostra vista quindi,  con la pratica dell’arte, per portarlo giù nel visibile.

 

Definisci la tua ricerca artistica, caratterizzata dall’influenza della poetica metafisica, con l’espressione “realismo metafisico”, per indicare appunto la tua “filosofia visiva”. Cosa intendi con questa definizione?

Esordirei dicendo che del realismo metafisico ancora oggi cerco le ragioni, per meglio amalgamarlo al mio immaginare oggettuale, paradigma della mia pratica pittorica, che colloco nel panorama della filosofia visiva nell'arte. E a questo riguardo ritengo che la filosofia visiva nell'arte rappresenti l’approccio estetico che cerca di scrutare la natura svelando le percezioni visive che finiscono col proporsi come “occasioni estetiche”. Perciò, seguendo questa filosofia cerco di creare opere che esplorino la relazione tra l'artista, l'opera d'arte e lo spettatore, non tralasciando l'esperienza soggettiva per chi vede l'opera – anzi, per coloro che sanno sempre rivedere e rileggere l’opera d’arte, rendendone il senso profondo ogni volta che la riguardano. Per questa ragione, sin dai miei primi lavori, tra dubbi e perplessità, ho manifestato un’attenzione particolare sia per il realismo che per la metafisica. Con il tempo questo interesse ad indagare intorno alle cose reali, il modo di percepirle, quindi di intenderle nella re-interpretazione allorquando messe in opera, mi ha incuriosito sempre di più, così da approfondire l’argomento con ricerche e studi su artisti e autorevoli pensatori che hanno accortamente e costantemente dato supporto alle mie espressioni e alle mie riflessioni.

In questo senso ritengo che da tutto ciò ho “spremuto” quei presupposti per immaginare che ogni mia raffigurazione artistica sia il racconto di quel genere pittorico dove realtà e fantasia, stemperate in un’aura di bellezza rappresentazionale in cui concettualismo e simbolismo, diluiti in una appagante sintesi rappresentativa, palesino l’affermazione di un ritrovato modello espressivo in cui, nella loro compiutezza, si pongano alla maniera di narrazione e magia e, come un vero atto comunicativo, si compongano in una forma finalizzata a mettere in moto la mente di chi osserva in modo subliminale ed emotivo. Mi sono chiesto sempre, infatti, se il realismo metafisico sia una finestra sulla realtà nascosta delle cose; o se non sia una porzione della volontà suprema e divina di voler attingere una essenziale verità che è sempre oltre il conoscibile. Per non essere di parte direi che entrambi gli interrogativi sono domanda e risposta allo stesso tempo perché, in tale contesto, esprimono la soluzione per una convergenza di tutto ciò che ci intralcia i sensi, per sublimarli nella visione in cui la realtà stessa – come se avesse una sua anima – riesce a raccontarsi. E in questo modo ogni rappresentazione realista non può avvenire che nella forma di una metafisica esperienziale. Pertanto, e per ciò che mi riguarda, intendo per “realismo metafisico” quella forma di considerazione della realtà che pecca di enigmaticità, allorché con gesto artistico la si traspone nell’oggetto dell’arte. Oggetto che tra gli oggetti comuni lo identifichiamo come opera d'arte in quanto in esso osserviamo elementi raffiguranti il vasto e indeterminato mondo delle immagini che ancorché confinate in definiti profili appartenenti o meno al nostro vissuto, alla nostra memoria, alla nostra realtà, divengono, nel loro insieme, il racconto di una emblematica unione di due apparenti opposti, il realismo e la metafisica.

Certamente l’argomento in questione meriterebbe una più ampia discussione per meglio comprendere la definizione di un gesto pittorico al quale ho adattato e adottato l’etichetta di “realismo metafisico”. Comprendiamo, però, che con l’espressione "realismo metafisico" indichiamo una ricerca artistica che, basandosi su un mondo reale o immaginario, cerca di raffigurarlo in modo realistico, ossia con una grande attenzione ai dettagli, alla precisione formale e alla resa visiva, il tutto annodato alla dimensione simbolica e immaginaria della rappresentazione. Da ciò possiamo affermare che il “realismo metafisico” è l’ingegnosa  pratica con la quale il fare diviene espressione. E a tal proposito ci è dato sapere che, proprio nell’ambito della produzione industriale, il realismo metafisico trova la sua più ampia applicazione poiché partendo dal nulla, e solo attraverso un intero processo produttivo che va dall’idea della cosa al suo progetto, quindi, dalla realizzazione all’utilizzo della cosa stessa, osserviamo che quanto di fatto non apparteneva al mondo reale, l’interazione di un processo produttivo ne ha reso disponibile la tal cosa nonchè il suo uso. Analogamente è quanto avviene con le mie rappresentazioni pittoriche dove quel fare altro non è che il processo produttivo in cui ogni singolo contenuto del pensiero, ogni entità mentale, e più in particolare, la rappresentazione di un oggetto o immagine alla mente - ovvero la nozione che la mente si forma o riceve di una cosa reale o immaginaria - si perfezionerà nel titolo dell'opera e a questo verranno associate forme e immagini che, coerentemente connesse e legate all'idea e al titolo, saranno depositate come scena finale nell'oggetto artistico. Così contestualizzato, il “realismo metafisico”, nel panorama di una filosofia visiva, come in altre occasioni ho sostenuto, diviene il principio unificante tra ideale e reale, tra in-temporale e tempo. Esso è la sintesi della rappresentazione di un incontro tra forme sensibili e forme intelligibili che si manifestano tra contenuti e significati. Sintesi che permette una relazione diretta tra colui che crea l’oggetto artistico, ovverosia l’oggetto del quale è la rappresentazione, e l’osservatore. È l’esperienza estetica totalizzante che ha come fondamento l’attenzione a ristabilire, nell’artista che indaga, quell’equilibrio desiderato nel rapporto tra interiorità ed esteriorità, tra conoscenza a priori e conoscenza a posteriori, tra immanenza e trascendenza, tra ciò che manifestamente in una raffigurazione traspare alla luce, e ciò che velatamente si nasconde come arte in ombra ma che, allorquando un insieme di segni pittorici - forme e contenuti giustapposti in una ammirevole intessitura scenografica - divengono soluzione e nel contempo enigma per chi osserva.

La funzione dell’arte consiste, a tuo avviso, nel superamento del dato fenomenico percepibile attraverso le categorie umane spazio-temporali e nel disvelamento del mondo noumenico. L’artista, dunque, è immerso in un continuo processo di conoscenza. Come nasce questa tua concezione dell’arte?

Ancor prima di rispondere su cosa sia l’arte e quale possa essere la sua funzione, introdurrei l’argomento    con un interrogativo più radicale che l’uomo continua ancora a porsi: cos’è veramente l’arte? Ritengo di non saper dare una risposta convincente, ma proverei ad esprimere alcune considerazioni basate più su riflessioni intuitive fondate sulla certezza che non esiste alcun accordo su cosa sia l’arte, nel senso che non esiste un’unica ed univoca risposta e che dunque ogni generazione si ritrova  a rifletterci solo perché ogni risposta sta sempre dopo l’infinita domanda che tormenta l’uomo. E questo, evidentemente, è dovuto al fatto che l’uomo – ancorché in questa particolare circostanza vuole sentirsi assolutamente libero – di fatto si trova ogni volta di fronte a prodotti sempre nuovi, tali da spiazzarlo quando deve cercare di averne una percezione omogenea. Come a dire, in sostanza, che non può non risultargli difficile compiere quello sforzo che gli riesce invece nel ragionamento scientifico, in cui la infinita  varietà dei dati empirici trova un qualche ordine nella sintesi delle formule della fisica, della chimica, e di ogni altra disciplina scientifica. Di fronte all’illimitata varietà delle opere artistiche, invece, l’uomo non riesce a darne una interpretazione che tenga conto dei caratteri particolari che hanno sostenuto le sue rappresentazioni, non riuscendo così a ricomporla in possibile sintesi. Con le opere d’arte, insomma, si passa da una stagione culturale all’altra, da una corrente artistica all’altra, senza che se ne possano ravvedere elementi comuni da affidare alla rappresentazione di un pensiero razionalistico. Ogni elemento  di una qualsivoglia opera d’arte, quale che sia la stagione culturale che l’ha espressa, non torna mai compatibile né comparabile con gli elementi che caratterizzano una scuola d’arte o un’epoca artistica. Nell’opera d’arte, in definitiva, c’è una unità inconfondibile, come ci capita di ritenere invece la unicità mentale, psicologica, spirituale con cui l’uomo dà la propria impronta alle altre attività.

In conclusione, c’è una singolarità dell’individuo come anche dell’opera d’arte – anzi, una singolarità dell’opera d’arte come dell’individuo che l’ha espressa e prodotta. Come a dire che, se uno scienziato esprime un massimo livello di conoscenza, non v’è dubbio che quello che ottiene non è poi così singolare da far sospettare che nessun’altro prima o poi possa pervenire al medesimo risultato. Per nessuna opera d’arte si potrebbe dire altrettanto. Nel senso che se il David lo ha “creato” Michelangelo, è chiaro che nessun’altro potrebbe farlo con la medesima singolarità. E così vale, naturalmente, per la poesia, per la pittura e per ogni altra espressione artistica. E allora, quando ci chiediamo cosa sia veramente l’arte, è necessario che ci rispondiamo in modo tale da fare emergere la nostra consapevolezza sul modo con cui si produce arte. Forse a questo quesito potremmo anche rispondere con quella razionalità che di solito utilizziamo per le argomentazioni scientifiche, nel senso che possiamo programmare e progettare dei processi formativi che fanno acquisire l’attitudine a usare i mezzi espressivi. Ma ciò che viene fatto dopo non avrà più niente di omologabile e confrontabile, perché ogni risultato rappresenterà sempre la proiezione di una singolarità (artistica) che in qualche modo rinvia all’unicità della persona (artista). In questo senso l’artista non vorrà né potrà mai ridursi a semplice uomo di scuola, a banale conformista,  piuttosto intende profondamente dirsi così come si percepisce, e lo fa per offrirsi a chiunque voglia interrogarlo senza chiedergli però quanto la sua arte possa risultare un trait d’union con i propri simili, piuttosto guardando le sue opere e interrogandole, cercandovi significati e messaggi instabili, cogliendo l’emozione del suo dirsi che fluisce nell’emozione del nostro interrogarlo e interpretarlo. Che non si compirà mai del tutto, ma non perché chi fruisce l’arte non potrebbe mai coglierne la singolarità espressa dall’artista, ma perché l’unicità dell’opera d’arte ha una intrinseca fluidità temporale che non la inchioda mai in definitive etichette interpretative. Insomma, l’opera d’arte è vita che vive, al pari dell’uomo che la interroga, condividendone le energie.

E questo, evidentemente, è dovuto alla soggettiva interpretazione assolutamente libera alla quale l’arte è sottoposta, ogni qualvolta di essa se ne cerchino le ragioni fondative. E, sebbene siamo convinti della sua non appartenenza oggettiva al mondo sensibile, ne accertiamo la presenza allorquando il gesto artistico di chi la pratica ne plasma l’essenza nell’oggetto dell’arte. Pertanto, dubbi e interrogativi su cosa sia l’arte si ripresentano ogni qualvolta se ne intavoli una discussione. Diviene, così, impossibile dare una risposta certa all’interrogativo di cos’è l’arte, sulla base di un sia pur ipotetico senso comune riguardo ad essa.

 Perciò, prudenza e ragionevolezza consiglierebbero di pensare piuttosto che l’arte sia la   possibilità stessa di una  verità che le immagini raccontano proprio attraverso la libera espressione della produzione artistica, quindi a seconda dei modi di intenderla. E se proprio vogliamo arzigogolare con tentazioni fenomenologiche, potremmo chiuderla con un’affermazione di Dino Formaggio che, nel suo testo Arte del 1973 scriveva: “arte è tutto ciò che l’uomo considera arte”. Venendo, poi, alle sue funzioni attestiamo, con assoluta certezza storica, che facciamo arte da sempre perché, com’è risaputo, dal suo ruolo, nonché dalla sua mediata oggettivazione, in fondo, ne ricaviamo non solo quell'atteso compiacimento estetico, ma con essa le nostre facoltà di attenzione e contemplazione vengono stimolate per una partecipata esperienza immersiva in quel vasto e indeterminato mondo dell'immaginario dove visioni e immagini, modellate in rappresentazioni visive, si rendono al cospetto dell'osservatore e del tempo. Infatti l'arte, esprimendosi in una diversità di funzioni, ha la capacità di narrare la realtà, sia essa oggettiva o soggettiva, consentendo, a chi ne usa i mezzi espressivi, di interpretare il mondo circostante e dare un senso alla loro esistenza. E, sempre attraverso l'arte, si possono esprimere idee, emozioni ed esperienze che altrimenti sarebbero difficili da comunicare verbalmente o razionalmente. Senza dimenticare che l'arte svolge anche un ruolo di critica e commento sociale e che spesso  gli artisti utilizzano la loro creatività per porre domande, sollevare problemi e mettere in discussione le convenzioni culturali e sociali, divenendo così un mezzo potente per suscitare la riflessione e la consapevolezza, quindi incoraggiando il dibattito e il cambiamento. Ed è l'arte che, mediante l'estetica e l'esperienza estetica, offre un accesso privilegiato alla bellezza e alla contemplazione. Estetica ed esperienza estetica che permette alle persone di sperimentare momenti di piacere, meraviglia e sublime,  e tale esperienza può portare a un senso di connessione con la realtà, quella per intenderci appartenente alla trascendenza. Trascendenza, che a guardar bene, eleva l'arte a osservatrice del mondo  fenomenico e sensibile tanto da indagarne, di questo, il suo non conoscibile, finanche a disvelarne quella  parte nascosta ai nostri sensi.

È innegabile che, in tale contesto, l'artista, o chi per esso, non soltanto si immerge nel mondo fenomenico, ma lo analizza, lo mette in discussione e ne scava le diverse profondità, rivelando una molteplicità di realtà  differenti e alternative. E proprio da questa immersività creativa, nonché attraverso l'uso di nuove tecniche e materiali, l'artista diventa un soggetto attivo nella conoscenza del mondo noumenico, ovvero quel mondo  dalla realtà in sé e inaccessibile alla ragione umana, pertanto negato alla percezione visiva, almeno questo  è quanto sosteneva il filosofo Immanuel Kant. Dunque, quello che possiamo conoscere sono solo i fenomeni, ovvero le rappresentazioni soggettive che creiamo nella nostra mente, di conseguenza la conoscenza umana è limitata dalle categorie spazio-temporali. Quindi, e sempre secondo il pensiero del filosofo Kant, l’accesso al non conoscibile è possibile solo con l’arte, ossia attraverso l’esperienza estetica, in quanto questa ha la capacità di superare tali limitazioni rivelando, così, l’inaccessibile realtà in sé che, con pragmatica esperienza, non potremmo comprendere e disvelare.

Ne consegue che l'artista non è solo un creatore di bellezza estetica, ma un conoscitore dell'essenza dell'essere umano. La sua creatività non ha limiti e la sua mente è sempre aperta alle nuove scoperte e alle nuove esperienze. Così l'artista con il suo fare rende quell’immaginario non solo segno sensibile alla nostra percezione visiva, ma le sue azioni rappresentative attestano la continuità del processo di conoscenza. E, per quel che ci è dato sapere, con il termine conoscenza si vuole intendere la facoltà di percepire e di apprendere, riconoscendo all’arte quel valore comunicativo, razionale e irrazionale, quale forza che spinge l’osservatore alla contemplazione di quanto messo in scena attraverso gli oggetti dell’arte.

Qual è, a tuo avviso, la connessione tra arte e filosofia?

Premetto che la Storia dell’Arte e la Storia della Filosofia sono due discipline che si influenzano reciprocamente. La Storia dell’Arte, infatti, può essere vista come una forma di espressione filosofica, mentre la Storia della Filosofia può essere utilizzata come strumento analitico per comprendere e interpretare il profilo storico dell’esperienza artistica e in qualche modo la stessa natura dell’arte, di cui però si occupa più approfonditamente l’estetica. Queste discipline sono strettamente connesse, in quanto  sia l’arte che la filosofia, cercano di rappresentare e comprendere la natura del mondo e della nostra esperienza. Mentre la filosofia si occupa di osservare e interpretare le nostre esperienze in maniera razionale, cercando di trovare risposte alle domande fondamentali sull'esistenza umana e sulla natura della realtà, l'arte, invece, si esprime attraverso il linguaggio simbolico, comunicando esperienze ed emozioni attraverso una varietà di mezzi espressivi.

Entrambe le discipline, però, stimolano la creatività, la riflessione critica e l'immaginazione, offrendo un modo per esplorare il mondo e comprendere la nostra posizione all'interno di esso. Infatti, molte delle grandi opere d'arte sono state realizzate da artisti che si sono ispirati e hanno riflettuto sulla filosofia per la loro creazione artistica. Così come la filosofia si è proposta e ancora si propone di fornire una base concettuale e analitica per interpretare l'arte. Essa, infatti, si interroga sul significato dell'arte, sulla sua natura estetica e sulle questioni etiche legate alla produzione e alla fruizione dell'arte, in tal modo entrando in sezioni culturali che vanno dalla Sociologia dell’arte alla Storia dell’estetica. Ma quali che siano i percorsi, è innegabile che spesso condividono temi e concetti simili, come la bellezza, l'etica, l'identità, la libertà, la verità. Non a caso molte opere d'arte sono state create per esprimere idee filosofiche e per portare la riflessione sulla natura umana e sul nostro rapporto con il mondo. In sintesi, la connessione tra Storia dell’arte e Storia della filosofia è forte e complessa, poiché entrambe sono strumenti fondamentali per la comprensione e l'esplorazione del mondo e della nostra esperienza umana. Ma questo non significa che abbiamo fatto chiarezza sul quesito che resta metodologicamente fuorviante, come ho già sostenuto precedentemente nei riguardi dell’arte.

Cosa pensi dell’attuale società ipertecnologizzata e della sua influenza sulle modalità espressive in campo artistico?

Dagli smartphone ai social media, la tecnologia sta trasformando in modo rapido e pervasivo ogni aspetto della nostra vita, incluso il modo in cui ci esprimiamo artisticamente. L'avvento di nuovi strumenti e tecniche di comunicazione ha permesso agli artisti di esplorare nuovi ambiti espressivi e di raggiungere sempre più facilmente un pubblico globale. C’è da chiedersi se le mutazioni delle forme linguistiche ed espressive abbiano agito sulla stessa essenza dell’arte: se possano averne alterato la sua connotazione ontologica. Di certo la società di oggi risulta ipertecnologizzata e la tecnologia si è introdotta in ogni ambito della vita. C’è da chiedersi se tali processi abbiano avuto effetti perniciosi sui processi produttivi degli artisti. Oggi, molti artisti utilizzano strumenti digitali e software per creare opere d'arte, dalla fotografia alla pittura, dalla scultura alla videoarte. Questi nuovi strumenti permettono agli artisti di esplorare nuove possibilità espressive, di creare opere interattive e immersive che coinvolgono il pubblico in modo più diretto. Ma io continuo a chiedermi se tutto ciò abbia prodotto, anzi, se può aver mai prodotto dei cambiamenti in ciò che pensiamo che sia l’arte.

Ritengo, infatti, che l'impatto della tecnologia sulla produzione artistica non è solo positivo. La dipendenza dalla tecnologia può portare a una perdita di manualità e alla scarsa attenzione alle abilità artigianali, così importanti per molte forme d'arte tradizionale. Inoltre, l'omologazione delle modalità di comunicazione digitale e la facile condivisione delle informazioni può portare anche alla banalizzazione e alla perdita di originalità. E allora mi chiedo, sapendo di non poter trovare risposta, se le domande sull’uso delle tecnologie espressive adottate nella produzione artistica possano davvero riguardare la singolarità che esprime l’universale verità dell’uomo e la capacità di esprimerla che è propria degli artisti, del momento che producono; capacità che non può non essere anche di tutti gli uomini che sempre di più vanno raffinando le proprie sensibilità percettive di quegli oggetti che, per quanto di questo mondo, non sono mai del tutto di questo mondo. Ma di contro, però, in un mondo ipertecnologizzato dove tutto sembra essere connesso e condiviso, vi sono molti artisti che cercano di andare controcorrente, creando opere che riflettono sulla relazione  tra l'uomo e la tecnologia, sul potere delle reti sociali e sulla natura dell'esperienza umana in questo nuovo contesto tecnologico, cercando così il pretesto per un ritorno alla nostra comune natura primordiale ed eterna.

Quali sono i tuoi progetti futuri?

Continuare con il mio realismo metafisico ad indagare sul bello delle cose raccontandolo attraverso la filosofia visiva nel panorama della poetica metafisica. Ma soprattutto – detto in buona sintesi – di continuare a dir-mi e raccontar-mi come sempre mi son detto e raccontato quando ho osato dare uno sguardo alla mia natura primordiale che condivido con i miei simili e con la stessa Natura.

A tuo avviso, l’arte è rivoluzionaria?

L'arte può essere rivoluzionaria perché ha il potere di sfidare i valori e le norme dell'epoca in cui è prodotta, di portare al cambiamento, alla riflessione e all'azione. L'arte può essere un mezzo per esprimere dissenso e protesta contro l'ingiustizia, il potere e l'oppressione. Nella storia dell'arte, molte opere hanno avuto un impatto rivoluzionario. Ad esempio, l'arte cubista e quella dadaista del primo Novecento hanno sfidato le convenzioni artistiche e culturali dell'epoca, producendo una sia pur parziale rivoluzione, espressa nelle forme con cui l’artista comunica la sua natura profonda. L'arte concettuale degli anni '60 e '70 ha esplorato la politica, la società, la cultura e la filosofia, dando voce ai movimenti di cambiamento e alle proteste contro la guerra, il razzismo e l'industria culturale. Se ora affermassi che nel XXI secolo, l'arte, in ogni sua forma, continuerà a sfidare le norme e a promuovere il cambiamento, di fatto direi qualcosa che inevitabilmente verrà ripetuto nei secoli a venire come è stato già detto nei secoli passati. Dobbiamo insomma persuaderci che l’artista è un viaggiatore che si ferma a tante stazioni che sono nel suo percorso immaginifico, e soprattutto che l’artista è fornito di una energia particolare che gli consente di mettere ordine nel suo caos interiore, producendone una rappresentazione fruibile da chi non ha la sua stessa potenza espressiva. E tuttavia gli uomini, anzi, ogni uomo è una potenziale unicità che aspetta o di esprimere la propria singolarità o di interpretare il mondo, l’arte e la cultura filtrandoli attraverso le opere artistiche. Una pratica esistenziale e relazionale che quanto meglio  sarà fatta tanto più facilmente si realizzerà quel cambiamento che si aspettano tutti gli uomini di buona volontà.