LOBODILATTICE

HOPERIODIBLURICORRENTI - Roberta Filippelli

Inaugura

Sabato, 27 Aprile, 2024 - 18:00

Presso

Galleria Bonaire Contemporanea
Via Principe Umberto, 39, Alghero, SS, Italia

A cura di

Ivo Serafino Fenu

Partecipa

Roberta Filippelli

Fino a

Domenica, 12 Maggio, 2024 - 21:00

HOPERIODIBLURICORRENTI - Roberta Filippelli

Comunicato

 

Roberta Filippelli ha periodi blu ricorrenti. Sarà una sindrome patologica, magari stagionale? O sarà, forse, un’ossessione maniacale? E se, alla fine, si trattasse di quell’attrazione per il blu che, nel mondo dell’arte, ha precedenti altrettanto ricorrenti quanto illustri?

L’esempio più eclatante viene dall’artista francese Yves Klein che sul blu, l’International Klein Blue, ha basato una parte importante della sua poetica, tesa a trascinare lo spettatore oltre la superficie, in una sfera trascendentale. Quella del blu, quel “suo” blu «è l’invisibile diventato visibile … Non ha dimensioni. È “oltre” le dimensioni di cui sono partecipi gli altri colori». Ben più drammatico, a suo modo fatale, è stato l’approdo al colore da parte del regista inglese Derek Jarman che titolò il suo ultimo film, girato un anno prima della morte a causa dell’AIDS (1994), Blue, in una sorta di funerea e incombente tautologia. Negli ultimi mesi di vita il regista venne colpito da un’infezione agli occhi che lo rese incapace di percepire altro se non tonalità di blu. Jarman impose tale condizione visiva anche allo spettatore, costringendolo a vedere per 76 minuti uno schermo completamente blu mentre raccontava della sua vita, dell’amore e della malattia. Si trattava dello stesso blu utilizzato da Klein privato dell’originaria aspirazione al trascendente ma epifanico di un ben più concreto e brutale senso della morte, nel quale l’immagine della fine coincideva con la fine stessa dell’immagine.

Quelle di Klein e di Jarman sono due polarità estreme, per quanto interconnesse, di un rapporto quasi viscerale col blu che ha infinite gradazioni e molti nomi. In tale dimensione intermedia e senza rinunciare a quell’afflato poetico consustanziale a tale colore si muove anche Roberta Filippelli e la sua mostra hoperiodibluricorrenti: dunque non una patologia, piuttosto una vera e propria rapsodia, naturalmente in blu. Per molti, del resto, soprattutto per coloro che vivono in una città di mare, il blu è una condizione fisica e, insieme, dell’anima, forse un destino.

Per lei la ricerca del blu è un viaggio, un’urgenza estetica e una necessità dello spirito davanti a un mare e a un cielo che incombono e che tutto dominano ma, parafrasando Marcel Proust, per l’artista il viaggio, quello vero, non consiste nel cercare nuove terre o altri mari, quanto avere nuovi occhi.

Ogni scatto proposto da Roberta Filippelli è, in questa prospettiva, un frammento poetico di un viaggio articolato in stazioni, un viaggio nella quotidianità, un incontro col blu nel quale casualità e volontà giocano tra loro e mappano, contestualmente, un territorio fisico e uno spazio interiore: un invito al viaggio che pretende compartecipazione emotiva, che smaterializza il paesaggio e lo trasforma in un luogo dell’anima nel quale «tutto è ordine e bellezza / calma e voluttà» (F. Battiato, C. Baudelaire).

La prima stazione è quella dedicata alla meditazione, al rapporto biunivoco che l’artista intrattiene col blu, in quelli che la stessa definisce, appunto, veri e propri periodi blu ricorrenti.

Sono i blu che le si parano davanti e la avvolgono durante il suo camminare lento, in una ritualità quotidiana scandita da 10.000 passi e che vengono selezionati dal suo sguardo attento, sintonizzato sulle frequenze di una sensibilità interiore abilitata a coglierle: orizzonti di mare e cielo, ora decisi ora rarefatti, in un continuum declinato nelle infinite gamme cromatiche che transitano dal più diafano ceruleo per precipitare nell’oltremare più profondo. E in tale profondità si travalica la dimensione fisica e si entra in una sorta di sospensione temporale, metafisica, in un “non luogo” pacificato che, tuttavia, quando «sprofonda vicino al nero, riecheggia un dolore quasi inumano» (W. Kandinskij). La seconda stazione è caratterizzata dalla presenza di bagnanti, anche loro segnati dal blu e pertanto predestinati. Sembrerebbe un ritorno al reale e alla concretezza della quotidianità vacanziera, col suo caos e le sue frenetiche ritualità ma, anche qui, Roberta Filippelli mantiene la dimensione astratta del non luogo. Sono presenze che, paradossalmente, enfatizzano assenze e amplificano il vuoto: è l’anelito all’infinito nel quale l’Io, in un senso di fusione panica con la natura, si fa mare e diviene quel blu nel quale sarà dolce naufragare.

Il viaggio finisce nella terza stazione tesa a documentare quell’urban blue che insegue l’artista, che la seduce e la costringe a un surplus di attenzione verso le sue manifestazioni nella vita di ogni giorno: in un abito, una panchina, una saracinesca, un pavimento, perfino nelle citazioni di film visti, meditati e interiorizzati in una continua educazione visiva e sentimentale enfatizzata da una sovraesposizione di blu variamente declinati. Si tratta di un’affinità elettiva e di un’attrazione fatale che la rende affine e sorella di Yves Klein, lo stesso al quale un giornalista chiese del giorno più felice della sua vita ricevendone tale risposta: «Se c'è un evento concreto che mi ha reso veramente felice, sceglierei il successo nel catturare questo Blu che volevo fosse unico al mondo».

Ma per Roberta Filippelli l’ossessione non è per “quel blu unico al mondo” bensì per la più astratta e insieme concreta dimensione esistenziale ed estetica di un blu riletto e ordinato attraverso processi di raffinata concettualità e rigorosa prassi artistica. Un blu che trova il suo approdo in un film immaginato e realizzato nella sfera del desiderio e a noi è dato vedere attraverso una sequenza di fotogrammi: visioni di mondi blu, di orizzonti che ci indirizzano verso un Altrove più prossimo di quanto ci sia dato vedere … dietro l’angolo.

 

Ivo Serafino Fenu

 

 

Roberta Filippelli nasce ad Alghero nel 1967 dove vive e lavora.

Artista multimediale, si accosta alle arti visive negli anni Ottanta. Il suo lavoro trae ispirazione da accadimenti che incrocia nel suo vivere quotidiano, che tratta con un approccio ironico ma caparbiamente analitico. Mette sotto la lente d'ingrandimento vicende apparentemente ordinarie nelle quali riconosce potenzialità inespresse.

 

 

Roberta Filippelli ha periodi blu ricorrenti. Sarà una sindrome patologica, magari stagionale? O sarà, forse, un’ossessione maniacale? E se, alla fine, si trattasse di quell’attrazione per il blu che, nel mondo dell’arte, ha precedenti altrettanto ricorrenti quanto illustri?

L’esempio più eclatante viene dall’artista francese Yves Klein che sul blu, l’International Klein Blue, ha basato una parte importante della sua poetica, tesa a trascinare lo spettatore oltre la superficie, in una sfera trascendentale. Quella del blu, quel “suo” blu «è l’invisibile diventato visibile … Non ha dimensioni. È “oltre” le dimensioni di cui sono partecipi gli altri colori». Ben più drammatico, a suo modo fatale, è stato l’approdo al colore da parte del regista inglese Derek Jarman che titolò il suo ultimo film, girato un anno prima della morte a causa dell’AIDS (1994), Blue, in una sorta di funerea e incombente tautologia. Negli ultimi mesi di vita il regista venne colpito da un’infezione agli occhi che lo rese incapace di percepire altro se non tonalità di blu. Jarman impose tale condizione visiva anche allo spettatore, costringendolo a vedere per 76 minuti uno schermo completamente blu mentre raccontava della sua vita, dell’amore e della malattia. Si trattava dello stesso blu utilizzato da Klein privato dell’originaria aspirazione al trascendente ma epifanico di un ben più concreto e brutale senso della morte, nel quale l’immagine della fine coincideva con la fine stessa dell’immagine.

Quelle di Klein e di Jarman sono due polarità estreme, per quanto interconnesse, di un rapporto quasi viscerale col blu che ha infinite gradazioni e molti nomi. In tale dimensione intermedia e senza rinunciare a quell’afflato poetico consustanziale a tale colore si muove anche Roberta Filippelli e la sua mostra hoperiodibluricorrenti: dunque non una patologia, piuttosto una vera e propria rapsodia, naturalmente in blu. Per molti, del resto, soprattutto per coloro che vivono in una città di mare, il blu è una condizione fisica e, insieme, dell’anima, forse un destino.

Per lei la ricerca del blu è un viaggio, un’urgenza estetica e una necessità dello spirito davanti a un mare e a un cielo che incombono e che tutto dominano ma, parafrasando Marcel Proust, per l’artista il viaggio, quello vero, non consiste nel cercare nuove terre o altri mari, quanto avere nuovi occhi.

Ogni scatto proposto da Roberta Filippelli è, in questa prospettiva, un frammento poetico di un viaggio articolato in stazioni, un viaggio nella quotidianità, un incontro col blu nel quale casualità e volontà giocano tra loro e mappano, contestualmente, un territorio fisico e uno spazio interiore: un invito al viaggio che pretende compartecipazione emotiva, che smaterializza il paesaggio e lo trasforma in un luogo dell’anima nel quale «tutto è ordine e bellezza / calma e voluttà» (F. Battiato, C. Baudelaire).

La prima stazione è quella dedicata alla meditazione, al rapporto biunivoco che l’artista intrattiene col blu, in quelli che la stessa definisce, appunto, veri e propri periodi blu ricorrenti.

Sono i blu che le si parano davanti e la avvolgono durante il suo camminare lento, in una ritualità quotidiana scandita da 10.000 passi e che vengono selezionati dal suo sguardo attento, sintonizzato sulle frequenze di una sensibilità interiore abilitata a coglierle: orizzonti di mare e cielo, ora decisi ora rarefatti, in un continuum declinato nelle infinite gamme cromatiche che transitano dal più diafano ceruleo per precipitare nell’oltremare più profondo. E in tale profondità si travalica la dimensione fisica e si entra in una sorta di sospensione temporale, metafisica, in un “non luogo” pacificato che, tuttavia, quando «sprofonda vicino al nero, riecheggia un dolore quasi inumano» (W. Kandinskij). La seconda stazione è caratterizzata dalla presenza di bagnanti, anche loro segnati dal blu e pertanto predestinati. Sembrerebbe un ritorno al reale e alla concretezza della quotidianità vacanziera, col suo caos e le sue frenetiche ritualità ma, anche qui, Roberta Filippelli mantiene la dimensione astratta del non luogo. Sono presenze che, paradossalmente, enfatizzano assenze e amplificano il vuoto: è l’anelito all’infinito nel quale l’Io, in un senso di fusione panica con la natura, si fa mare e diviene quel blu nel quale sarà dolce naufragare.

Il viaggio finisce nella terza stazione tesa a documentare quell’urban blue che insegue l’artista, che la seduce e la costringe a un surplus di attenzione verso le sue manifestazioni nella vita di ogni giorno: in un abito, una panchina, una saracinesca, un pavimento, perfino nelle citazioni di film visti, meditati e interiorizzati in una continua educazione visiva e sentimentale enfatizzata da una sovraesposizione di blu variamente declinati. Si tratta di un’affinità elettiva e di un’attrazione fatale che la rende affine e sorella di Yves Klein, lo stesso al quale un giornalista chiese del giorno più felice della sua vita ricevendone tale risposta: «Se c'è un evento concreto che mi ha reso veramente felice, sceglierei il successo nel catturare questo Blu che volevo fosse unico al mondo».

Ma per Roberta Filippelli l’ossessione non è per “quel blu unico al mondo” bensì per la più astratta e insieme concreta dimensione esistenziale ed estetica di un blu riletto e ordinato attraverso processi di raffinata concettualità e rigorosa prassi artistica. Un blu che trova il suo approdo in un film immaginato e realizzato nella sfera del desiderio e a noi è dato vedere attraverso una sequenza di fotogrammi: visioni di mondi blu, di orizzonti che ci indirizzano verso un Altrove più prossimo di quanto ci sia dato vedere … dietro l’angolo.

 

Ivo Serafino Fenu

 

 

Roberta Filippelli nasce ad Alghero nel 1967 dove vive e lavora.

Artista multimediale, si accosta alle arti visive negli anni Ottanta. Il suo lavoro trae ispirazione da accadimenti che incrocia nel suo vivere quotidiano, che tratta con un approccio ironico ma caparbiamente analitico. Mette sotto la lente d'ingrandimento vicende apparentemente ordinarie nelle quali riconosce potenzialità inespresse.

 

 

Roberta Filippelli ha periodi blu ricorrenti. Sarà una sindrome patologica, magari stagionale? O sarà, forse, un’ossessione maniacale? E se, alla fine, si trattasse di quell’attrazione per il blu che, nel mondo dell’arte, ha precedenti altrettanto ricorrenti quanto illustri?

L’esempio più eclatante viene dall’artista francese Yves Klein che sul blu, l’International Klein Blue, ha basato una parte importante della sua poetica, tesa a trascinare lo spettatore oltre la superficie, in una sfera trascendentale. Quella del blu, quel “suo” blu «è l’invisibile diventato visibile … Non ha dimensioni. È “oltre” le dimensioni di cui sono partecipi gli altri colori». Ben più drammatico, a suo modo fatale, è stato l’approdo al colore da parte del regista inglese Derek Jarman che titolò il suo ultimo film, girato un anno prima della morte a causa dell’AIDS (1994), Blue, in una sorta di funerea e incombente tautologia. Negli ultimi mesi di vita il regista venne colpito da un’infezione agli occhi che lo rese incapace di percepire altro se non tonalità di blu. Jarman impose tale condizione visiva anche allo spettatore, costringendolo a vedere per 76 minuti uno schermo completamente blu mentre raccontava della sua vita, dell’amore e della malattia. Si trattava dello stesso blu utilizzato da Klein privato dell’originaria aspirazione al trascendente ma epifanico di un ben più concreto e brutale senso della morte, nel quale l’immagine della fine coincideva con la fine stessa dell’immagine.

Quelle di Klein e di Jarman sono due polarità estreme, per quanto interconnesse, di un rapporto quasi viscerale col blu che ha infinite gradazioni e molti nomi. In tale dimensione intermedia e senza rinunciare a quell’afflato poetico consustanziale a tale colore si muove anche Roberta Filippelli e la sua mostra hoperiodibluricorrenti: dunque non una patologia, piuttosto una vera e propria rapsodia, naturalmente in blu. Per molti, del resto, soprattutto per coloro che vivono in una città di mare, il blu è una condizione fisica e, insieme, dell’anima, forse un destino.

Per lei la ricerca del blu è un viaggio, un’urgenza estetica e una necessità dello spirito davanti a un mare e a un cielo che incombono e che tutto dominano ma, parafrasando Marcel Proust, per l’artista il viaggio, quello vero, non consiste nel cercare nuove terre o altri mari, quanto avere nuovi occhi.

Ogni scatto proposto da Roberta Filippelli è, in questa prospettiva, un frammento poetico di un viaggio articolato in stazioni, un viaggio nella quotidianità, un incontro col blu nel quale casualità e volontà giocano tra loro e mappano, contestualmente, un territorio fisico e uno spazio interiore: un invito al viaggio che pretende compartecipazione emotiva, che smaterializza il paesaggio e lo trasforma in un luogo dell’anima nel quale «tutto è ordine e bellezza / calma e voluttà» (F. Battiato, C. Baudelaire).

La prima stazione è quella dedicata alla meditazione, al rapporto biunivoco che l’artista intrattiene col blu, in quelli che la stessa definisce, appunto, veri e propri periodi blu ricorrenti.

Sono i blu che le si parano davanti e la avvolgono durante il suo camminare lento, in una ritualità quotidiana scandita da 10.000 passi e che vengono selezionati dal suo sguardo attento, sintonizzato sulle frequenze di una sensibilità interiore abilitata a coglierle: orizzonti di mare e cielo, ora decisi ora rarefatti, in un continuum declinato nelle infinite gamme cromatiche che transitano dal più diafano ceruleo per precipitare nell’oltremare più profondo. E in tale profondità si travalica la dimensione fisica e si entra in una sorta di sospensione temporale, metafisica, in un “non luogo” pacificato che, tuttavia, quando «sprofonda vicino al nero, riecheggia un dolore quasi inumano» (W. Kandinskij). La seconda stazione è caratterizzata dalla presenza di bagnanti, anche loro segnati dal blu e pertanto predestinati. Sembrerebbe un ritorno al reale e alla concretezza della quotidianità vacanziera, col suo caos e le sue frenetiche ritualità ma, anche qui, Roberta Filippelli mantiene la dimensione astratta del non luogo. Sono presenze che, paradossalmente, enfatizzano assenze e amplificano il vuoto: è l’anelito all’infinito nel quale l’Io, in un senso di fusione panica con la natura, si fa mare e diviene quel blu nel quale sarà dolce naufragare.

Il viaggio finisce nella terza stazione tesa a documentare quell’urban blue che insegue l’artista, che la seduce e la costringe a un surplus di attenzione verso le sue manifestazioni nella vita di ogni giorno: in un abito, una panchina, una saracinesca, un pavimento, perfino nelle citazioni di film visti, meditati e interiorizzati in una continua educazione visiva e sentimentale enfatizzata da una sovraesposizione di blu variamente declinati. Si tratta di un’affinità elettiva e di un’attrazione fatale che la rende affine e sorella di Yves Klein, lo stesso al quale un giornalista chiese del giorno più felice della sua vita ricevendone tale risposta: «Se c'è un evento concreto che mi ha reso veramente felice, sceglierei il successo nel catturare questo Blu che volevo fosse unico al mondo».

Ma per Roberta Filippelli l’ossessione non è per “quel blu unico al mondo” bensì per la più astratta e insieme concreta dimensione esistenziale ed estetica di un blu riletto e ordinato attraverso processi di raffinata concettualità e rigorosa prassi artistica. Un blu che trova il suo approdo in un film immaginato e realizzato nella sfera del desiderio e a noi è dato vedere attraverso una sequenza di fotogrammi: visioni di mondi blu, di orizzonti che ci indirizzano verso un Altrove più prossimo di quanto ci sia dato vedere … dietro l’angolo.

 

Ivo Serafino Fenu

 

 

Roberta Filippelli nasce ad Alghero nel 1967 dove vive e lavora.

Artista multimediale, si accosta alle arti visive negli anni Ottanta. Il suo lavoro trae ispirazione da accadimenti che incrocia nel suo vivere quotidiano, che tratta con un approccio ironico ma caparbiamente analitico. Mette sotto la lente d'ingrandimento vicende apparentemente ordinarie nelle quali riconosce potenzialità inespresse.

 

 

Roberta Filippelli ha periodi blu ricorrenti. Sarà una sindrome patologica, magari stagionale? O sarà, forse, un’ossessione maniacale? E se, alla fine, si trattasse di quell’attrazione per il blu che, nel mondo dell’arte, ha precedenti altrettanto ricorrenti quanto illustri?

L’esempio più eclatante viene dall’artista francese Yves Klein che sul blu, l’International Klein Blue, ha basato una parte importante della sua poetica, tesa a trascinare lo spettatore oltre la superficie, in una sfera trascendentale. Quella del blu, quel “suo” blu «è l’invisibile diventato visibile … Non ha dimensioni. È “oltre” le dimensioni di cui sono partecipi gli altri colori». Ben più drammatico, a suo modo fatale, è stato l’approdo al colore da parte del regista inglese Derek Jarman che titolò il suo ultimo film, girato un anno prima della morte a causa dell’AIDS (1994), Blue, in una sorta di funerea e incombente tautologia. Negli ultimi mesi di vita il regista venne colpito da un’infezione agli occhi che lo rese incapace di percepire altro se non tonalità di blu. Jarman impose tale condizione visiva anche allo spettatore, costringendolo a vedere per 76 minuti uno schermo completamente blu mentre raccontava della sua vita, dell’amore e della malattia. Si trattava dello stesso blu utilizzato da Klein privato dell’originaria aspirazione al trascendente ma epifanico di un ben più concreto e brutale senso della morte, nel quale l’immagine della fine coincideva con la fine stessa dell’immagine.

Quelle di Klein e di Jarman sono due polarità estreme, per quanto interconnesse, di un rapporto quasi viscerale col blu che ha infinite gradazioni e molti nomi. In tale dimensione intermedia e senza rinunciare a quell’afflato poetico consustanziale a tale colore si muove anche Roberta Filippelli e la sua mostra hoperiodibluricorrenti: dunque non una patologia, piuttosto una vera e propria rapsodia, naturalmente in blu. Per molti, del resto, soprattutto per coloro che vivono in una città di mare, il blu è una condizione fisica e, insieme, dell’anima, forse un destino.

Per lei la ricerca del blu è un viaggio, un’urgenza estetica e una necessità dello spirito davanti a un mare e a un cielo che incombono e che tutto dominano ma, parafrasando Marcel Proust, per l’artista il viaggio, quello vero, non consiste nel cercare nuove terre o altri mari, quanto avere nuovi occhi.

Ogni scatto proposto da Roberta Filippelli è, in questa prospettiva, un frammento poetico di un viaggio articolato in stazioni, un viaggio nella quotidianità, un incontro col blu nel quale casualità e volontà giocano tra loro e mappano, contestualmente, un territorio fisico e uno spazio interiore: un invito al viaggio che pretende compartecipazione emotiva, che smaterializza il paesaggio e lo trasforma in un luogo dell’anima nel quale «tutto è ordine e bellezza / calma e voluttà» (F. Battiato, C. Baudelaire).

La prima stazione è quella dedicata alla meditazione, al rapporto biunivoco che l’artista intrattiene col blu, in quelli che la stessa definisce, appunto, veri e propri periodi blu ricorrenti.

Sono i blu che le si parano davanti e la avvolgono durante il suo camminare lento, in una ritualità quotidiana scandita da 10.000 passi e che vengono selezionati dal suo sguardo attento, sintonizzato sulle frequenze di una sensibilità interiore abilitata a coglierle: orizzonti di mare e cielo, ora decisi ora rarefatti, in un continuum declinato nelle infinite gamme cromatiche che transitano dal più diafano ceruleo per precipitare nell’oltremare più profondo. E in tale profondità si travalica la dimensione fisica e si entra in una sorta di sospensione temporale, metafisica, in un “non luogo” pacificato che, tuttavia, quando «sprofonda vicino al nero, riecheggia un dolore quasi inumano» (W. Kandinskij). La seconda stazione è caratterizzata dalla presenza di bagnanti, anche loro segnati dal blu e pertanto predestinati. Sembrerebbe un ritorno al reale e alla concretezza della quotidianità vacanziera, col suo caos e le sue frenetiche ritualità ma, anche qui, Roberta Filippelli mantiene la dimensione astratta del non luogo. Sono presenze che, paradossalmente, enfatizzano assenze e amplificano il vuoto: è l’anelito all’infinito nel quale l’Io, in un senso di fusione panica con la natura, si fa mare e diviene quel blu nel quale sarà dolce naufragare.

Il viaggio finisce nella terza stazione tesa a documentare quell’urban blue che insegue l’artista, che la seduce e la costringe a un surplus di attenzione verso le sue manifestazioni nella vita di ogni giorno: in un abito, una panchina, una saracinesca, un pavimento, perfino nelle citazioni di film visti, meditati e interiorizzati in una continua educazione visiva e sentimentale enfatizzata da una sovraesposizione di blu variamente declinati. Si tratta di un’affinità elettiva e di un’attrazione fatale che la rende affine e sorella di Yves Klein, lo stesso al quale un giornalista chiese del giorno più felice della sua vita ricevendone tale risposta: «Se c'è un evento concreto che mi ha reso veramente felice, sceglierei il successo nel catturare questo Blu che volevo fosse unico al mondo».

Ma per Roberta Filippelli l’ossessione non è per “quel blu unico al mondo” bensì per la più astratta e insieme concreta dimensione esistenziale ed estetica di un blu riletto e ordinato attraverso processi di raffinata concettualità e rigorosa prassi artistica. Un blu che trova il suo approdo in un film immaginato e realizzato nella sfera del desiderio e a noi è dato vedere attraverso una sequenza di fotogrammi: visioni di mondi blu, di orizzonti che ci indirizzano verso un Altrove più prossimo di quanto ci sia dato vedere … dietro l’angolo.

 

Ivo Serafino Fenu

 

 

Roberta Filippelli nasce ad Alghero nel 1967 dove vive e lavora.

Artista multimediale, si accosta alle arti visive negli anni Ottanta. Il suo lavoro trae ispirazione da accadimenti che incrocia nel suo vivere quotidiano, che tratta con un approccio ironico ma caparbiamente analitico. Mette sotto la lente d'ingrandimento vicende apparentemente ordinarie nelle quali riconosce potenzialità inespresse.

 

 

Roberta Filippelli ha periodi blu ricorrenti. Sarà una sindrome patologica, magari stagionale? O sarà, forse, un’ossessione maniacale? E se, alla fine, si trattasse di quell’attrazione per il blu che, nel mondo dell’arte, ha precedenti altrettanto ricorrenti quanto illustri?

L’esempio più eclatante viene dall’artista francese Yves Klein che sul blu, l’International Klein Blue, ha basato una parte importante della sua poetica, tesa a trascinare lo spettatore oltre la superficie, in una sfera trascendentale. Quella del blu, quel “suo” blu «è l’invisibile diventato visibile … Non ha dimensioni. È “oltre” le dimensioni di cui sono partecipi gli altri colori». Ben più drammatico, a suo modo fatale, è stato l’approdo al colore da parte del regista inglese Derek Jarman che titolò il suo ultimo film, girato un anno prima della morte a causa dell’AIDS (1994), Blue, in una sorta di funerea e incombente tautologia. Negli ultimi mesi di vita il regista venne colpito da un’infezione agli occhi che lo rese incapace di percepire altro se non tonalità di blu. Jarman impose tale condizione visiva anche allo spettatore, costringendolo a vedere per 76 minuti uno schermo completamente blu mentre raccontava della sua vita, dell’amore e della malattia. Si trattava dello stesso blu utilizzato da Klein privato dell’originaria aspirazione al trascendente ma epifanico di un ben più concreto e brutale senso della morte, nel quale l’immagine della fine coincideva con la fine stessa dell’immagine.

Quelle di Klein e di Jarman sono due polarità estreme, per quanto interconnesse, di un rapporto quasi viscerale col blu che ha infinite gradazioni e molti nomi. In tale dimensione intermedia e senza rinunciare a quell’afflato poetico consustanziale a tale colore si muove anche Roberta Filippelli e la sua mostra hoperiodibluricorrenti: dunque non una patologia, piuttosto una vera e propria rapsodia, naturalmente in blu. Per molti, del resto, soprattutto per coloro che vivono in una città di mare, il blu è una condizione fisica e, insieme, dell’anima, forse un destino.

Per lei la ricerca del blu è un viaggio, un’urgenza estetica e una necessità dello spirito davanti a un mare e a un cielo che incombono e che tutto dominano ma, parafrasando Marcel Proust, per l’artista il viaggio, quello vero, non consiste nel cercare nuove terre o altri mari, quanto avere nuovi occhi.

Ogni scatto proposto da Roberta Filippelli è, in questa prospettiva, un frammento poetico di un viaggio articolato in stazioni, un viaggio nella quotidianità, un incontro col blu nel quale casualità e volontà giocano tra loro e mappano, contestualmente, un territorio fisico e uno spazio interiore: un invito al viaggio che pretende compartecipazione emotiva, che smaterializza il paesaggio e lo trasforma in un luogo dell’anima nel quale «tutto è ordine e bellezza / calma e voluttà» (F. Battiato, C. Baudelaire).

La prima stazione è quella dedicata alla meditazione, al rapporto biunivoco che l’artista intrattiene col blu, in quelli che la stessa definisce, appunto, veri e propri periodi blu ricorrenti.

Sono i blu che le si parano davanti e la avvolgono durante il suo camminare lento, in una ritualità quotidiana scandita da 10.000 passi e che vengono selezionati dal suo sguardo attento, sintonizzato sulle frequenze di una sensibilità interiore abilitata a coglierle: orizzonti di mare e cielo, ora decisi ora rarefatti, in un continuum declinato nelle infinite gamme cromatiche che transitano dal più diafano ceruleo per precipitare nell’oltremare più profondo. E in tale profondità si travalica la dimensione fisica e si entra in una sorta di sospensione temporale, metafisica, in un “non luogo” pacificato che, tuttavia, quando «sprofonda vicino al nero, riecheggia un dolore quasi inumano» (W. Kandinskij). La seconda stazione è caratterizzata dalla presenza di bagnanti, anche loro segnati dal blu e pertanto predestinati. Sembrerebbe un ritorno al reale e alla concretezza della quotidianità vacanziera, col suo caos e le sue frenetiche ritualità ma, anche qui, Roberta Filippelli mantiene la dimensione astratta del non luogo. Sono presenze che, paradossalmente, enfatizzano assenze e amplificano il vuoto: è l’anelito all’infinito nel quale l’Io, in un senso di fusione panica con la natura, si fa mare e diviene quel blu nel quale sarà dolce naufragare.

Il viaggio finisce nella terza stazione tesa a documentare quell’urban blue che insegue l’artista, che la seduce e la costringe a un surplus di attenzione verso le sue manifestazioni nella vita di ogni giorno: in un abito, una panchina, una saracinesca, un pavimento, perfino nelle citazioni di film visti, meditati e interiorizzati in una continua educazione visiva e sentimentale enfatizzata da una sovraesposizione di blu variamente declinati. Si tratta di un’affinità elettiva e di un’attrazione fatale che la rende affine e sorella di Yves Klein, lo stesso al quale un giornalista chiese del giorno più felice della sua vita ricevendone tale risposta: «Se c'è un evento concreto che mi ha reso veramente felice, sceglierei il successo nel catturare questo Blu che volevo fosse unico al mondo».

Ma per Roberta Filippelli l’ossessione non è per “quel blu unico al mondo” bensì per la più astratta e insieme concreta dimensione esistenziale ed estetica di un blu riletto e ordinato attraverso processi di raffinata concettualità e rigorosa prassi artistica. Un blu che trova il suo approdo in un film immaginato e realizzato nella sfera del desiderio e a noi è dato vedere attraverso una sequenza di fotogrammi: visioni di mondi blu, di orizzonti che ci indirizzano verso un Altrove più prossimo di quanto ci sia dato vedere … dietro l’angolo.

 

Ivo Serafino Fenu

 

 

Roberta Filippelli nasce ad Alghero nel 1967 dove vive e lavora.

Artista multimediale, si accosta alle arti visive negli anni Ottanta. Il suo lavoro trae ispirazione da accadimenti che incrocia nel suo vivere quotidiano, che tratta con un approccio ironico ma caparbiamente analitico. Mette sotto la lente d'ingrandimento vicende apparentemente ordinarie nelle quali riconosce potenzialità inespresse.

 

 

 

 

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