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Haraket è una parola araba e turca che significa movimento, inteso sia come spostamento fisico e libertà di pensiero. La Turchia ospita attualmente oltre tre milioni di rifugiati, provenienti principalmente dalla Siria. Vivono in alloggi temporanei, case abbandonate e campi improvvisati, sperando di imbarcarsi per la Grecia un giorno per raggiungere il nord Europa.
Ma i mesi e mesi passano, l'integrazione diventa un'illusione, la lingua una barriera. Per gli uomini, è quasi impossibile trovare un lavoro in maniera legale. Le donne si prendono cura dei bambini piccoli e della casa, mentre ai più grandi è negato il diritto allo studio e diventano facili prede dello sfruttamento del lavoro minorile. Lavorano da 8 a 12 ore al giorno, sei giorni alla settimana, cucendo bottoni e cerniere, tagliando stoffe e facendo orli, dentro edifici abbandonati senza servizi igienici o norme di sicurezza, per 15 euro al giorno. Hanno tra gli otto e i sedici anni.
L'industria tessile in Turchia è una delle più prosperose del mondo, dopo Cina e Bangladesh. Secondo il Ministero dell'Economia turco, nelle città come Izmir e Gaziantep la produzione è aumentata del 33% negli ultimi quattro anni. L'industria tessile nazionale rappresenta il 7% del PIL della Turchia e l'Unione europea è mercato più importante del settore.
Valerio Muscella ha vissuto in Turchia quasi due anni. Haraket mira ad offrire uno sguardo sincero, scevro da compassione o da facili pietismi, sulla condizione di chi, per sfuggire a guerra e miseria, si ritrova vittima dello stesso sistema perverso di cui vorrebbe far parte. Vite di scarto, citando Bauman. La mostra è visitabile dal 20 ottobre al 9 novembre 2017 presso Espronceda, Center for Art and Culture di Barcellona, Spagna ed è parte di DocField, Festival de Fotografìa Documental, organizzato da Photographic Social Vision.
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