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Viva l'Italia!: Il primato di Vincenzo Gioberti

Viva l’Italia!: Il primato di Vincenzo Gioberti

di Dario Lodi

 

Vincent Cousin, padre della storiografia filosofica francese, affermava che Vincenzo Gioberti (1801-1852) non fosse un filosofo, ma un teologo “in ritardo”. Si riferiva in particolare al “Primato morale e civile degli italiani”, testo che rese famoso il Gioberti, dopo che l’autore era uscito dall’infatuazione mazziniana. In effetti, il libro del prelato (Gioberti, torinese, era stato ordinato presbitero, Carlo Alberto lo aveva nominato suo cappellano), non ha niente a che vedere con le idee di Mazzini e neppure con quelle di Garibaldi. Tanto meno con quelle dei Savoia, convinti ghibellini.

Il “Primato” ha un’importanza non da poco perché l’autore pensa a un’Italia unita sotto l’egida papale, tanto che il suo programma fu denominato “neoguelfismo”, con tutte le implicazioni medievali. Queste ultime non furono quasi mai prese in seria considerazione e quindi demonizzate d’acchito. Ghiberti non si riferiva al papa in carne e ossa, bensì all’idea che il pontefice rappresentava in termini di moralità e spiritualità, in tempi, quelli a lui presenti, assai poco inclini alle astrazioni.  Il Positivismo, sostenuto dalla Rivoluzione Industriale, incombeva minaccioso su una società che stava diventando ormai completamente prigioniera della borghesia.

Chi scrive non è nemico dell’avanzata laica, ma lo è del modo laico di avanzare facendo terra bruciata intorno. Non dobbiamo dimenticare che per una decina di secoli, sino al Sacco romano del 1527 ordinato dal’imperatore asburgico Carlo V, il riferimento maggiore dell’uomo era stato quello ecclesiastico, nel nome della “Gerusalemme in terra” di agostiniana memoria. Con l’avvento di Carlo Magno, il Cristianesimo aveva ottenuto la massima credibilità, tanto da far nascere il Sacro Romano Impero, retto idealmente da principi etici.

Gioberti, come del resto aveva fatto più in grande e più in piccolo allo stesso tempo lo zar di Russia nel 1815 (“Santa Alleanza”), voleva ripristinare quella mentalità, capace, secondo lui, di pacificare la penisola, di toglierla dalle mani straniere e di portare l’avanzata civiltà italiana, evidente nel periodo umanista e rinascimentale, a modello dell’intera Europa. A pensarci bene, questo proponimento, a paragone della bellicosità in atto dal 1555 (Pace di Augusta, ovvero tregua, fra Cattolici e Protestanti), pareva un passo in avanti anziché un passo indietro. Come tale, utopistico.

Per quanto l’utopia fosse palese, Gioberti non  se ne discostò mai, mostrando una coerenza encomiabile. Le sue fortune “mondane” non furono eccezionali: Carlo Alberto lo licenziò temendo congiurasse contro di lui, poi lo riprese con sé nel 1847-48 facendolo diventare primo presidente della Camera dei deputati del Regno di Sardegna. Tutto finì con l’ascesa al trono di Vittorio Emanuele II. Gioberti fu costretto ad emigrare, visse a Bruxelles e a Parigi, dove morì di colpo apoplettico nel 1852.

Lo stesso papato gli fu ostile, i suoi libri furono messi all’indice, I Gesuiti soffocarono le sue idee. Gioberti rifiutò una generosa pensione, visse in povertà gli ultimi anni, un po’ da novello Platone indignato del materialismo trionfante e dell’ottusità conseguente, ai suoi occhi terribilmente rovinosa (senza esagerare, considerando l’evoluzione della storia laica, causa partenza sbagliata: il troppo materialismo, appunto).