LOBODILATTICE

L'IMMAGINARIO CHE SFIORA L'ARTE "ALLA LUCE" D'UN SUPPORTO PER IL REALE

A Venezia, presso il Giudecca Art District, si può visitare dal 5 Febbraio al Marzo la mostra che s’intitola Everybody’s got something to hide except me and my monkey. Essa è curata da Francesca Mavaracchio e Pier Paolo Scelsi, esteticamente interessati a riprodurre una didascalia dell’immaginario che a volte può alterare il reale. Tutte le opere in mostra provengono da alcuni studenti presso l’Accademia di Belle Arti a Venezia, coinvolti dai professori Paolo Fraternali e Luca Reffo. Ricordiamo che i Beatles incisero il brano Everybody’s got something to hide except me and my monkey per rivendicare l’idillio della coppia amorosa, rispetto alle “paranoie” della vita quotidiana. L’arte permette un pragmatismo del “lasciarsi andare” all’immaginario. Quella comincia sempre da una forzatura sul reale, impedendo la necessità di distinguere una finzione. Nessuno di noi può togliersi il mondo che ci appare di fronte. Ma l’arte comporta un punto di raccolta fra la realtà e la virtualità, la materia e l’astrazione, l’esteriorità e l’interiorità, il simbolismo ed il concettualismo ecc… Non servono più i limiti delle “paranoie” riferite alle proprie possibilità. Tramite l’arte, l’immaginario ci “lascia andare” al pragmatismo d’un mondo intero. Quando scriviamo, garantiamo che i nostri pensieri trovino un punto di raccolta. Subito, il lettore proverà a forzare, visualizzando le immagini più adeguate alla comprensione d’una frase. Per alcune filosofie, il mondo conta a partire da come lo si percepisce. Possiamo concludere che l’arte dà le “didascalie” alle “sovraimpressioni” della conoscenza. E’ la descrizione di come si “forza” un “punto di raccolta” fra il reale ed il virtuale, la materia e l’astrazione, l’esteriorità e l’interiorità, il simbolismo ed il concettualismo ecc… Questa libertà “contagia”, senza che nessuno tema di doverla nascondere (citando il titolo dell’esibizione), se “bistrattata” dal mero razionalismo. La musica udita, il dipinto contemplato, la poesia interpretata ecc… ineriscono ad un “idillio globale” con l’immaginario. L’arte ha un linguaggio che “altera” i limiti delle proprie possibilità, partendo dai sensi spesso in accordo con la sinestesia. E’ una “forzatura” che “lascia andare” al “punto di raccolta” sul mondo che non ci sfugge più, quantomeno grazie all’immaginazione. Questo “contagia” anche il semplice figurativismo, se un minimo di simbolismo non può mancare.

Il dipinto di Alessio Bertolo ci mostra un “casco” di linee nere, che paiono alzarsi in aria per esplosione, da una “puntina” d’innesco in basso. Attorno, il grigio fumoso “rattopperebbe” le bruciature della terra, e cedendo la nuvolosità del cielo. Un casco consente sempre la protezione da un pericolo. Ma quello d’un tornado è un punto eccessivo di raccolta, sino ad alterare la terra ed il cielo. Guardando la concentrazione dei cerchi, l’artista avrebbe anche potuto configurare una maschera antigas. Qualcosa di sbalorditivo, oltre il più inquietante nodo alla gola. Alle volte, sbagliamo perché non badiamo alle avvertenze. O forse tendiamo a fare gli “spacconi”! Messa così, sarebbe andata in fumo la didascalia dell’uso corretto, complice la percezione d’una cellulosa rattoppante. Certo il quadro ha una forza attrattiva, per i cerchi che riproducono il magnete a ferro di cavallo.

Il filosofo Nancy ci ricorda che ciascuno è < presso di sé > solo in quanto è < presso gli altri >. Ma come spiegare al meglio tale dialettica, in fenomenologia? Il singolo uomo letteralmente si trova ad essere, ergo “spiazzato” nella sua “prossimità” con un contesto. Ciò impedisce di giustificare qualsivoglia totalizzazione. Specificatamente per gli uomini, la loro comunità permette di “scartare” la singolarità in “prossimità” d’una pluralità. Se ci troviamo ad essere, allora ci dis-poniamo per continuare a farlo. Una prossimità fenomenologicamente non ha la risoluzione. Il classicissimo < materia o soggetto? > in dialettica è “spiazzato”, attraverso un “incontro” fra il < viene “alla luce” > ed il < funziona “come tale” >. Soltanto il dis-posto può anche ri-entrare. Fenomenologicamente, il < come tale > permette di pluralizzare la singolarità d’un < alla luce >. Ma qui il ri-entro funzionerà all’incrocio con l’avvenuta dis-posizione, ovvero senza pretendere di superarne lo scarto. Se noi ci troviamo ad essere, allora nel contempo la nostra essenza verrà < alla luce > funzionando < come tale >. La singolarità del vissuto “incrocia” la pluralità d’una socializzazione. L’essenza della comunità si dà al ri-entro d’una “prossimità” fra il Sé e l’Altro. Né sembra che Nancy abbia “l’ansia” di mediare fra la singolarità e la pluralità. E’ sufficiente che quelle “sfiorino” il proprio incontro. La socializzazione in funzione del comunitarismo non può sovrapporsi, fra gli “scarti” d’ogni correlazione. Non vale la consistenza d’una mediazione, bensì il ri-entro d’un incontro. Così la dialettica continua all’accostarsi d’uno smarrimento. Questo ha un vantaggio sociale, mantenendo “vivo” il < cum >, senza che si pretenda d’appropriarsene.

Il trittico di Beatrice Pescarolo indaga l’amicizia femminile, in cui emerge la caratteristica di “stuzzicare” la curiosità e comunque il divertimento. Il volto vuoto non si discosta dalla semplice spalla, oppure dalla mano tesa. Dunque l’espressività è unicamente “sfiorata”, percependosi “alla luce” d’un sostegno più “spontaneo”. Anzi l’artista cerca la comodità del vivere, mentre i corpi s’avvinghiano agli accessori persino gonfiabili. Per certi versi, l’amicizia è il tipo di relazione umana più incline a predisporre il < presso > fra il Sé e l’Altro. Essa ha la spontaneità “spiazzata” del divertimento, che “sfiora” il vantaggio d’un supporto. Non serve nemmeno vedere o parlare, perché ci si capisce “al volo”. L’amicizia assomiglia simbolicamente al palloncino che si gonfia sempre di più, sfiorando il momento culminante dello scoppio, per “ridere” fragorosamente. Allora si potrà cingere un festone al collo del primo che (paradossalmente) sbagli, e “rattoppandogli” il crollo delle previsioni ottimistiche. Tramite lo yoga, il cuscino cilindrico favorisce che la corporalità sia “prossima” ad un sostegno unicamente interiore, fra le articolazioni al giro ripetuto. Ma per l’artista prevale il divertimento che “solletica”. Così, il cuscino cilindrico sarebbe la trave d’una zattera che si spacchi.

Il dipinto di Cristina Pozzan ci raffigura una finestra, aperta verso un paesaggio forse urbano. Emerge il fitto reticolato, che nella tecnica d’artista avrebbe aiutato a dettagliare. Soprattutto, la finestra è percepibile come il macrocosmo d’una pagina, sfogliabile grazie alla prospettiva inclinata del suo muro. Il dettaglio in se stesso funziona al “singolare e plurale” dell’attenzione che “scava” continuamente. Lo stesso accade quando si contempla, benché all’inverso: “spalmando” l’orizzonte. La finestra ci spinge sempre ad immaginare il “volo” verso una postazione che “domina” dall’alto un intero paesaggio. Là, il dettaglio esteriore sarebbe < presso > una nostra “culla” sulla luce. Nel suo quadro, pare che l’artista abbia raffigurato un tetto collinare, compreso fra le tonalità del verde e del grigio. Più in generale, secondo la fenomenologia una contemplazione non “si legge” con la mente, bensì “si sfoglia” con l’intimità. Il piacere sarà intenso, e qualcuno preferirà di tenerselo per sé. Fra gli edifici cittadini, ricordiamo che spesso non conosciamo il nostro dirimpettaio, confidando che lui eviti di spiarci il vissuto.

I quadri astratti di Francesco Lella permettono d’immaginare lo “sboccio” comunque “trattenuto” d’una figura “a pistone” dell’astrazione. C’è un dinamismo dialettico: fra la macchia d’olio che s’allarga sul piano orizzontale, ed il cappello scoperchiato che si lancia sul piano verticale. Nell’insieme, percepiamo un “punto di raccolta” per la spazialità che funziona “sovrapponendo” la propria temporalità. Un esploso in ingegneria mostra tutte le fasi tramite cui il reale “forza continuamente” una fuoriuscita nel virtuale. Ma allora la tela dovrà ondeggiare? Di sicuro l’artista ha lasciato lo sfondo bianco, abilitato a riflettere l’intera gamma dei colori, tranne per “l’attrito oleoso” d’una clorofilla nera. Dal verdeggiamento floreale, saremmo passati ad un grammofono dalla tromba in ottone. Qualcosa che venga < alla luce > tramite il “martelletto” del nostro orecchio, laddove il piacere per la musicalità approssima l’immediatezza come “nascondimento sovrimpresso” dell’interiorità.

A Venezia, Ilaria Miotto installa un quadro astratto di tipo polimaterico. Pare che a lei interessi la dialettica estetica fra lo strappo e la cucitura. Nell’insieme, si potrà tentare una distorsione sul “principio” della mostra, se non ci sarà nulla da nascondere. Addirittura, l’imperfezione del rattoppamento permetterà di “vagheggiare” la prossimità dell’ignoto, complice la tonalità tendente al celeste. Soprattutto la garza è un supporto che forza il coagulo, e l’artista ha lavorato il quadro “rullando” con la mano sino a grattare gli inserti materici. Con un raffinato eclettismo, percepiamo il “dripping” degli strappi, dentro una “caverna” dell’astrattismo da cui sia le “stalattiti” sia le “stalagmiti” della figurazione (dal tono ghiacciato) si libererebbero in funzione d’una nostra “distorsione”: dalla realtà al sogno. Così, il “coagulo” del cielo nuvoloso si farebbe “rattoppare” da una contemplazione per il godimento, in via paradossale. Qui il surrealismo pluralizzante delle figure dà la carnalità percettiva all’astrazione delle linee e dei colori, presi singolarmente.