LOBODILATTICE

UNA COLLABORAZIONE ESTETICA CHE "ADATTA" ALLA VERITA' GLI "SPUNTI" PER L'ETICA

A Venezia, presso la Galleria “Alice Schanzer”, dal 9 Giugno al 9 Luglio era stata ospitata la mostra collettiva dal titolo SpostaMenti, con le opere degli artisti Giacinto Cerone, Angelo Colagrossi, Antonio De Pietro, Mario Giancola, Pierluigi Isola, Mauro Magni, Alberto Parres e Silvio Pasqualini. Loro, provenienti dagli ambienti culturali di Roma, hanno avuto per curatrice la giovane Silvia Previti. Esteticamente, ci pare che le opere, per la maggiore in pittura, provino a descrivere una collaborazione fra la verità (alla teoria) e l’etica (alla prassi). Trattasi di due dimensioni che fenomenologicamente hanno l’universalità. Il singolo uomo è libero, ma caduco (dalla nascita alla morte). Scegliendo, noi quantomeno vorremmo “adattare” alla verità i nostri “spunti” per l’etica. Le occasioni della vita richiedono che si giustifichi una responsabilità della coscienza. L’estetica permette una collaborazione fra la teoria e la prassi, giacché l’ispirazione iniziale si ri-modella continuamente, in accordo con una formatività. Anzi diventa etico pure lo “spunto” re-interpretativo, da parte del fruitore finale, il quale ammette i suoi limiti, rispetto alla “grandezza” dell’autore. Gli artisti in mostra a Venezia simbolicamente volevano evitare la meccanicità del selezionamento, dai quozienti che i galleristi applicano a seconda di quante mostre sono state ripetute, in città diverse. A loro interessa la “scintilla” del contatto umano. Il gemellaggio cooperativo migliora anche il manifesto dottrinale. Chi allestisce una mostra, deve dimostrarsi bravo ad adattare sulla percezione d’un percorso (per i visitatori) il “filo conduttore” d’un universo (se l’arte cerca un “appiglio” sulla verità, contro la “piatta” quotidianità). Simbolicamente, un manifesto perde la sua “utopia” solo spostandosi verso la prassi d’un gemellaggio, al comunitarismo che sviluppa il dialogo. A Venezia, alcune opere cercavano un raccoglimento delle figure. E’ dunque in queste percezioni che noi possiamo spiegare il titolo della mostra: SpostaMenti. Si proverebbe ad indirizzare l’idea verso uno “spunto” per la prassi etica. Se l’estetica già da stessa è formativa, per il suo progresso potrà tornare utile una collaborazione tra vari artisti. In particolare, l’idea degli SpostaMenti dovrà valere per un numero simbolicamente infinito di mostre, secondo il promoter interno Silvio Pasqualini.

Antonio De Pietro ha realizzato il quadro ad olio su tavola dal titolo Lettere d’amore. Lì in realtà ci colpisce di più l’inserimento del ferro, a fili, per cicatrizzare simbolicamente una spontaneità che volge nell’ansia. La lettera d’amore potrebbe percepirsi da timidi, all’adolescenza. Oppure, al passaggio del tempo che affeziona, alla maturità s’arriverà paradossalmente tramite una “catena” della passionalità. Non percepiremo l’ansia solo momentanea del tagliacarte. La cicatrizzazione ferrosa è più indicata per un amore ormai perduto. La lettera avrebbe perso “l’intonaco” del ricordo… Ma nella contemporaneità è arduo percepire il romanticismo, all’uso delle applicazioni per lo smartphone che, al contrario, tenderebbero ad impedire il più possibile l’ostacolo rappresentato dalla distanza.

Alberto Parres ha esibito il quadro a tempera su tela dal titolo White dreams. E’ una matassa, dal simbolismo che non riuscirebbe a trasfigurarsi, paradossalmente, nell’astrattismo. Più semplicemente, uno spettro “vaga” per il sogno. Sappiamo che il bianco rappresenta la sommatoria di tutti i colori. Positivamente, la luce porta al concetto, quando l’astrazione funge da “modello” per la figurazione. Invece, pare più improbabile percepire che il sogno sia bianco. Lì lo “spettro” della razionalità, in sé abituato a capire e distinguere per gradi (a seconda della preparazione che un uomo ha: sia dalle esperienze di vita, sia evidentemente dai libri letti) perdura a “vagare” in un assorbimento delle libidini irreali. Non sarà mai un bianco illuminante, bensì forse un biancore macchiante. Alla fine del sogno, risvegliandoci, noi avremo conservato l’impressione dell’incontro con un fantasma, in via figurativa. E’ raro che un’esperienza simile offra un guadagno di consapevolezza etica, tranne per la sua declinazione sulla catarsi. La psicanalisi edipica nasce da un monito greco riguardo lo < Apri gli occhi! >. Alberto Parres avrebbe raffigurato una sorta di iceberg, in una “navigazione” agli abissi delle libidini personali.

A Venezia, è di Giacinto Cerone il quadro a pastello di carta che s’intitola Dialogo con Silvio Pasqualini e con il poeta Franco Scataglini. A livello figurativo, ci attrae molto la percezione della bruciatura. In particolare, pare che il dialogo fra le tre sagome (una nera, una rossa ed una blu) alla stilizzazione avvenga utilizzando una carta copiativa. Così aumenta l’assorbimento nel vissuto caratteristico dell’animalità, che confonde il “quadro” della constatazione, se nell’uomo gli impulsi s’inseriscono in una riflessione. All’antitesi dello specchio illuminante, si dà la cenere offuscante. Infatti il terno di linee colorate finirebbe “ammantato” da uno spettro. Esattamente dove si percepisce il “carbone”, un quadrato sarebbe riuscito a specchiare la rifrazione delle sagome. L’amicizia non ci pare mai “enigmatica”, fondandosi sulla schiettezza. Però questo può riguardare, coerentemente, pure i segreti più inconfessabili…

Silvio Pasqualini ha esibito il quadro ad acrilico su tela dal titolo I fiori della rivoluzione. La figurazione pare politica, con la testa al centro che è contornata dalle… stelle a cinque punte. Nel complesso si penserà agli Anni ’60 / ’70, divisi fra la cultura hippy e l’ideologia del terrorismo. Ma quanto il fiore ora avrà provveduto a “stemperare gli animi”? Ci piace immaginare che un annaffiatoio spenga una molotov, mentre dalla gabbia usciranno delle “farfalle giganti”. Il dipinto di Silvio Pasqualini è recente; ergo qualcuno vorrà provare ad attualizzargli la speranza impolitica d’una concordia. Ad esempio si valuterà l’abbinamento delle campiture nel fondale, oltre alla più diretta iconografia della stella. La composizione del quadro si percepisce ipnotica, accrescendo il surrealismo “appena” inquietante della metafisica, per Giorgio De Chirico. Più precisamente i toni sgargianti fungono da paradossali ombre per il vitalismo “eccitato” da un risveglio.

Citiamo la poesia I fiori, scritta da Aldo Palazzeschi. Simbolicamente, là egli critica il falso moralismo della società borghese. Né bisognerebbe tornare ingenuamente al naturalismo. Un semplice fiore non avrebbe niente di “romantico”, potendo crescere nell’imprevedibilità d’una sua corruzione: per esempio, in quanto parassitario, o con gli alcaloidi. Aldo Palazzeschi lascerebbe un banchetto, parendogli quello troppo profumato. E’ il falso moralismo del benessere borghese. Aldo Palazzeschi, pur non avendo mangiato si sentirà appesantito e sazio come gli altri invitati, “stravaccati” agli angoli, fra le finestre o sui divani. Egli quindi sceglierà d’uscire, da solo. Sotto un cielo stellato, si percepirà che i fiori “disordinati” (senza la cura del giardinaggio) crescano con la medesima corruzione dei commensali.

A Venezia, il quadro di Pierluigi Isola, ad olio su tavola, s’intitola Tramonto a Creta. In mezzo al “disordine” dei calanchi, il ruscellamento proverà quantomeno ad “apparecchiarsi”, mediante un labirinto. Resta il mistero di chi passa dal tramonto “oracolare” d’una monotonia ammantante al “colpo di fortuna” ad alba per l’unica fuoriuscita. Gli stessi calanchi fenomenologicamente sono al saliscendi. Essi avrebbero una sagoma “oracolare”. Dalle cime si può godere d’un panorama, ma dialetticamente. Il saliscendi sarà una miniatura per l’alba rispetto al tramonto. Lontano, il mare dovrà “apparecchiare” il riposo definitivo, spiritualmente. Naturalmente l’artista qui ha citato il leggendario Labirinto di Cnosso, all’isola (e chissà quanto a giocare col suo cognome!) di Creta.

Il quadro di Mauro Magni, dal titolo Dialogo per la luce, è a tecnica mista su tavola. Ci pare di riconoscere un’alta torre a gradoni, per una simbologia babelica. L’artista chiarisce che per lui la modernità s’è smarrita in un caos frenetico. Una scritta al rovescio avrebbe disarcionato la punta della torre; vi si legge < romana >, e subito immaginiamo la sagoma del Colosseo. Attorno a quella, spunterebbe irradiante un sole floreale. Così si potrà “parare” il proiettile del fucile, che ci inquieta in sovrimpressione, tramite un inserto di carta, alla sinistra del quadro. Forse, a qualcuno parrà che la torre sia da “torta nuziale”. Con questa, si potrà perfino edulcorare l’ingrandimento del proiettile, pericolosamente caricato. Noi percepiamo che i gradoni si scalino alle rampe. Nella società contemporanea, si vive il paradosso d’avere sempre fretta (con l’orologio “puntato addosso”), sebbene già si conoscano i propri spostamenti (citando il titolo della mostra a Venezia), al tran tran degli obblighi lavorativi. La Torre di Babele era stata costruita per rimpiazzare la luce divina. Ciò comportò l’accentuazione dell’oscurità mondana, che Mauro Magni avrebbe cromaticamente mantenuto. Contro la frenesia moderna, il “riposo” nell’apice dei propri impegni dovrà favorire uno sguardo panoramico, ergo illuminato dal dialogo, eticamente.

Angelo Colagrossi ha esposto il quadro dal titolo Belle sagome, a tecnica mista. Due teste, prese dal soggetto femminile, sono state rappresentate di profilo, e per una percezione quasi siamese (da un incollaggio alle nuche). Quelle hanno un dinamismo ascensionale, complice il tono azzurro da cielo che “metta le ali” al mero “fantasma” dell’aria. Il titolo del quadro “carica” sulla bellezza, aiutandoci a capire che siamo oltre lo stampo ripetuto del graffitaro, usando lo spray della bomboletta. Sembra che i lineamenti delle due donne alludano ad un’origine africana. Angelo Colagrossi dice d’essere interessato all’evoluzione della forma. In Etiopia si scoprì la femmina d’australopiteco Lucy. Nel quadro, la frammentazione dei vecchi reperti è presente tra i graffiti, i quali avrebbero addirittura un fondale rupestre, per via del tono biancastro.

A Venezia, l’unica scultura in mostra apparteneva a Mario Giancola. Questa è fatta di ferro, e s’intitola Arcano. I vecchi cerchi di botte hanno ricevuto un trattamento, e massimizzando il ricordo del sapore, dal vino. Da un qualunque cassetto può sparire l’oggetto custodito. Ma noi avremo sempre il desiderio che la muffa ci consenta di gustarlo. La scultura di Mario Giancola ha un telaio “spugnoso”. La configurazione d’un pesce (quantomeno in base al punto d’osservazione) sarebbe interessante. Il mare ha la pressione da tastare, alla difficoltà di “riciclarla” con l’eleganza del nuoto. Ad altri sembrerà che il telaio ingigantisca le labbra d’una bocca. Nessuno di noi percepisce che i denti o le lische siano in grado di gustare l’alimentazione; ma questo funzionerà alla loro… “imbracatura”?