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Paolo Paradiso Homeward Bound

Inaugura

Sabato, 4 Maggio, 2019 - 18:00

Presso

Galleria Ponte Rosso
via Brera, 2

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Paolo Paradiso

Fino a

Sabato, 25 Maggio, 2019 - 19:00

Paolo Paradiso Homeward Bound

Comunicato

Sabato 4 maggio 2019 ore 18, alla Galleria Ponte Rosso (via Brera 2, Milano) inaugura la mostra personale di Paolo Paradiso Homeward Bound. 
 Perché Homeward Bound? Il titolo racconta in sintesi del ritorno, dopo la precedente mostra presentata dall’artista nel 2018 dedicata interamente a Venezia (“Un anno a Venezia”), al suo tema preferito di sempre: l’America degli anni ‘50/’60 e in particolare alla “sua” città, New York.
In questa nuova mostra l’artista presenta oltre venticinque nuovi dipinti di grande formato, tutti inediti, realizzati nel 2018/2019.

L’America di Paolo Paradiso di Andrea Bosco

“Ammalarsi di America. Per comprendere i sentimenti di Paolo Paradiso nei confronti degli Stati Uniti, tra amore e ammirazione, tra realtà e sogno, le parole di Mario Soldati in “America primo amore” appaiono illuminanti.
Scrive Soldati: “L'America non è soltanto una parte del mondo. L’America è uno stato d'animo, una passione. E qualunque europeo può, da un momento all’altro, ammalarsi di America”.
E’ una lunga storia quella tra Italia e America. Iniziata con Colombo e poi con i Castiglioni, gli Arese, i Vigna del Ferro. Italiani che andavano oltre l’oceano a scoprire le città che si stavano sviluppando, i pellerossa che stavano scomparendo, quel mondo in perenne movimento da Est verso Ovest, ballonzolante sulle rotaie della Grande Ferrovia.
Alla fine della seconda guerra mondiale, l’America si consacrò “Impero irresistibile”, come ha scritto in un bel saggio Victoria De Grazia. La società dei consumi americana, alla conquista del mondo.
I soldati americani avevano portato in Europa i jeans (tela inventata in Liguria) e diventati in breve simbolo di trasgressione e virilità. Avevano portato le “americane”: sigarette dal sapore deciso. Avevano portato gli Zippo, accendini sui quali “si poteva cucinare un uovo”. Avevano portato la Coca Cola: bevanda dalla formula mai svelata che avrebbe colonizzato il pianeta.
Scrisse Howard Whidden corrispondente del Business Week che “un aumento improvviso dei consumi personali rese evidente che il consumatore dopo essere stato trascurato a lungo, avrebbe rivestito un ruolo sempre più importante nell’economia europea”.
Quello che fu chiamato il “mercato monoclasse”. E che coincise con “l'invenzione dei giovani”. Spiega nel suo celebre saggio Jon Savage in quale modo alla fine del 1944 la direttrice del giornale di un liceo di Moline, nell’Illinois risolvesse il problema dell’alcolismo che dilagava nella sua città tra gli adolescenti.
Ruth Clifton aveva fatto ripristinare un vecchio magazzino, riempendolo di ragazzi, fotografati mentre bevevano Coca Cola. La didascalia che accompagnava il servizio, recitava: “La giovane America conosce i suoi problemi. E li risolverà se gliene sarà data l’occasione”.
L’America di Paolo Paradiso è quella degli Anni Cinquanta che, spiega l’artista, “durarono troppo poco”.
E’ l’America che coincide con New York. Con le grandi strade e i grandi grattacieli. Con Central Park. E’ la New York che espone a Broadway la pubblicità luminosa delle sue pieces teatrali e dei suoi film.
E’ l’America del Village e di Washington Square  luogo immortalato dal banjo dixie dei “The Village Stompers”.
Il Greenwich Village, dove accanto alla statua di George Washington puoi trovare anche quella di Giuseppe Garibaldi. 
L’America che Paradiso ama è quella delle Buick Special e delle Chevrolet Bel Air dalle scintillanti lamiere e dai paraurti cromati. E non importa che Mignon Mc Laughlin abbia scritto che “un'auto è inutile a New York”. La Mela ha i suoi riti. E le automobili sono al vertice della ritualità. A cominciare da quegli yellow cab entrati prepotentemente, assieme alle auto della Polizia, nelle pagine della letteratura.
Quella di Salinger, con il suo maldestro Holden. Quella di Truman Capote con la sua inarrivabile Holly Golightly. Che avrebbe dovuto essere Marylin, ma che per fortuna fu Audrey. “Colazione da Tiffany”: etichetta di un mondo destinato a diventare mito. 
L’America di Grace Metelious con i suoi “Peccatori”. E di Sloan Wilson con “Scandalo al sole”. Con il viso della ragazza della porta accanto, Sandra Dee. E i pullover color pastello di Troy Donahue. Con la musica di Percy Faith. L’America dei Drive In e delle pompe di benzina. Dei film di fantascienza. Dove ogni “Pianeta” era “proibito”.
Delle finestre di Hopper quando gli Americans non ancora graffiti erano quotidiana attualità. Una stagione nella quale Doris Day era la “fidanzata d’America”.
Le vite potevano essere televisivamente da “Strega”. Le agenzie pubblicitarie ti potevano convincere che la Pan Am fosse la migliore compagnia aerea del mondo. Hollywood ti spiegava che i “nostri” erano sempre e solo i buoni. E che lo stile di vita americano, con le sue fantastiche cucine, i suoi elettro-domestici d’avanguardia, i suoi primi televisori, era anche l’unico meritevole di essere inseguito.
Era tutto bello? No: Sinatra e Dean Martin e gli altri del Rat Pack di Las Vegas, fecero l’inferno quando scoprirono che gli artisti di colore dovevano entrare in scena passando dalle cucine. Che se eri nero, dovevi dormire alla periferia della città, stante il divieto di alloggiare negli hotel-casino del centro.
C’era il razzismo in quella America. E c’era il terrore della “bomba”. C’era la “caccia alle streghe”: con artisti e letterati epurati perché in odore di comunismo.
La New York di Paolo Paradiso visita luoghi reali ampiamente modificati dalle esigenze pittoriche dell’artista.
E’ la “sua” atmosfera americana: foto-realistica. Benché meno dettagliata rispetto alle precedenti produzioni. Una assunzione di matericità che rappresenta la sintesi del suo lungo percorso emotivo. La luce e le ombre, i riflessi. La pioggia e un pathos rarefatto, quasi antitetico, al monumentalismo dei grattacieli. Gli uomini camminano senza volto accanto alle automobili: prodigi di un design che interpretava il benessere americano. 
Guido Piovene nel suo “De America” spiega che in fondo ogni europeo che arriva a New York, ha una preesistente “idea” di quanto troverà. Istruito dai film, dalle foto in bianco e nero dei grandi fotografi occidentali, da millanta pubblicità. Ogni europeo, sbarcando a New York, trova facilmente “conferme” a ciò che si aspettava di trovare.
 La “comunicazione” Usa lo ha reso preventivamente “americano”. Ben prima di attendere i bagagli sui nastri trasportatori del La Guardia.
La mostra di Paolo Paradiso si intitola “Homeward Bound”: il titolo di un brano di Simon & Garfunkel che evoca “il ritorno a casa”. Desiderio che in fondo coincide con quello del “buon tempo antico”.
Paolo Paradiso è “tornato a casa”, a New York, per dipingere ancora una volta la città che ama. La città che ha saputo dettare la sua ispirazione, coinvolgendolo.
Scrive Piovene: “Il sogno di tutta l’America è quello di tornare indietro con gli anni: il sogno del grembo materno”.
La nostalgia del passato è universale, come insegna Proust. Ma quella per il “secolo americano”, meglio ancora per quel “decennio americano” collocato tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta è nostalgia trasversale.
Elvis “vive” ancora in ogni angolo del pianeta. Holden è stato tradotto in cinquanta diverse lingue. Hemingway è una icona “maledetta” della letteratura mondiale. La Thunderbird cabriolet ha segnato la storia automobilistica statunitense. Marylin vestita di bianco e con la gonna al vento rappresenta New York più della “lattina” pop di Andy Warhol.
Paolo Paradiso nelle trenta opere esposte alla “Ponte Rosso” (con qualche ambientazione estiva in Florida e California) è testimone di un mondo amato e sognato. Il desiderio di Alberto Sordi “americano a Roma” di andare nel “Kansas City”. Di bere acqua da un contenitore piuttosto che dal rubinetto di casa. Di calzare Converse All Star piuttosto che scarpe da ginnastica fabbricate a Vigevano. Di cavalcare una Harley, piuttosto che una Guzzi.
E’ l’America che nella stagione cara a Paradiso, profumava di favola.
La fiaba dei “Giorni felici”. Dove i bulli come Fonzie avevano il cuore d’oro. E le famiglie Cunnigham dispensavano buon senso. Perché, come ha scritto l’americana Mary McCarthy: Il lieto fine è la nostra fede nazionale.”

 

Paolo Paradiso è nato a Milano. Intraprende studi di grafica pubblicitaria ma si dedica contemporaneamente alla pittura, di cui è appassionato da sempre. Nel 1978 apre un suo studio fotografico e collabora con riviste di moda e studi pubblicitari.
Nel 1983 decide di trasferirsi a Chicago. Durante quel periodo la pittura diviene la sua attività prevalente e nel 2003 espone la sua produzione alla Michael H. Lord Gallery of Chicago.
Nel 2004 ritorna a Milano e vince il “Premio di Pittura Carlo Dalla Zorza” organizzato dalla Galleria Ponte Rosso che da allora lo rappresenta. Le esposizioni di Paradiso hanno riscontrato, in questi anni, un continuo e crescente successo. Attualmente vive tra Milano, Parigi e Barcellona.

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