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Viva l'Italia!: La foga di Carlo Pisacane

Viva l’Italia!: La foga di Carlo Pisacane

di Dario Lodi

 

Schiavitù o socialismo; altra alternativa non v'è.

(Saggio sulla rivoluzione)

 

 

Carlo Pisacane duca di San Giovanni (1818-1857), non fu soltanto il noto rivoluzionario semi-mazziniano, bensì fu anche un intellettuale di notevole levatura e uno scrittore molto interessante. Dei suoi testi, il migliore è senza dubbi il Saggio sulla rivoluzione, terminato di scrivere nel 1857 e pubblicato postumo nel 1860. Lo scritto risente, in particolare, delle teorie di Bakunin (noto agitatore sociale del tempo) e di Proudhon (un simpatico sognatore di comunità perfette). Non di Marx, quasi ignoto a Pisacane.

L’idea del Nostro era di esortare i contadini a liberarsi dei latifondisti e del regime borbonico (per nulla bonario, come appare in certe opere: il politico inglese William E. Gladstone fu testimone – e lo denunciò pubblicamente – del comportamento incivile dei Borboni, rei di soffocare ogni idea liberale con carcerazioni preventive, torture e distruzione d’interi paesi). Essi dovevano capire quali fossero i diritti naturali dell’umanità e ribellarsi dal giogo secolare.      

 

Pisacane si proclamava “federalista socialista libertario”. Pensava in puro stile romantico e nello stesso tempo si affidava alla grandiosità intellettuale illuminista. Quest’ultima, infatti, unita ai palpiti romantici, forniva una miscela micidiale contro la cieca conservazione portata dai continui tentativi di restaurazione dei regimi storici che funzioneranno secondo licenza da parte del potere borghese, un potere forte della mentalità imprenditrice e dei mezzi finanziari. Il fenomeno non andava a toccare quelle realtà arcaiche come il Regno delle Due Sicilie e neppure il Regno di Sardegna (con la differenza che quest’ultimo era vicino agli Stati europei più avanzati).

 

Il Nostro, dapprima innamorato di Mazzini, poi di Carlo Cattaneo (il vero padre del federalismo europeo), possedeva uno spirito irrequieto. Aveva seguito un corso militare nel famoso Collegio della Nunziatella a Napoli, da dove poi era dovuto scappare avendo impalmato Enrichetta De Lorenzo, moglie di un suo cugino (la donna lo seguirà ovunque). Finì a Londra, poi a Parigi, città nella quale aveva conosciuto, fra gli altri, Dumas padre e il poeta Lamartine. Partecipò ai moti parigini del 1848 e quindi ai moti milanesi dello stesso anno. Fece parte per qualche tempo della Legione Straniera, dove imparò l’arte della guerriglia.

 

Pisacane si rivelò alla fine più uomo d’azione che di pensiero. Animato da nobili e utopici principi, decise che non era più tempo di chiacchiere e s’imbarcò in un’impresa di liberazione che da subito mostrò qualcosa di disperato, di estremo. Preso possesso di una nave di linea, attese inutilmente le armi promesse da Rosolino Pilo, poi attaccò l’isola di Ponza, liberò oltre trecento prigionieri, quasi tutti per reati comuni, e svaligiò l’arsenale del presidio. Infine, sbarcò nei pressi di Sapri: lo accolsero nel peggiore dei modi. Riuscì a fuggire a Sanza, a pochi chilometri da Sapri, all’interno (siamo sempre in provincia di Salerno): qui i contadini chiamarono le guardie al grido di “ladri” rivolto ai “liberatori” e Pisacane fu sopraffatto, morendo (forse suicida).

 

Il martirio di Pisacane portò acqua al mulino dei diritti umani, svegliando in qualche modo le coscienze sopite del cosiddetto “quarto stato”, costretto, specialmente in città, a un’esistenza stentata. Paradossalmente, la rivoluzione industriale e agricola in corso (più visibile e apprezzabile in Inghilterra, Francia e Germania) peggiorò la qualità di vita degli addetti alle rivoluzioni in atto, mentre avrebbe dovuto migliorarla. La figura di Pisacane (come di altri coraggiosi) incoraggiò le giuste proteste sociali. Il latifondo borbonico non fu toccato più di tanto dalle novità industriali. Il regime relativo, in fondo, lasciava fare purché non fosse disturbato (in qual caso diventava feroce e crudele). Il contadino del Sud era, in fin dei conti, lo stesso del Medio Evo, poteva garantire da sé la propria sopravvivenza, mentre l’operaio della città dipendeva totalmente dal padrone. Così, a differenza che in passato (si pensi alle tante ribellioni agrarie), le rivendicazioni diverranno quasi esclusivamente cittadine, nel ricordo di utopisti come Pisacane, pronti a dare la vita per un sogno.