LOBODILATTICE

// FOCUS ON ARTIST // Dalla memoria della psychè alle “visioni” neoplatoniche, per un nuovo umanesimo della pittura. L’intervista a Emilio D’Elia

L’evanescenza della forma, la vividezza delle cromìe - che sfumano in paesaggi sospesi al di là delle categorie spazio-temporali, richiamando, a tratti, suggestioni simboliste - l’anelito verso l’àpeiron, l’infinito, interpretato in chiave neoplatonica, la memoria della psychè e la matrice creativa del vuoto. Sono questi gli elementi essenziali che caratterizzano l’universo artistico di Emilio D’Elia, pittore pugliese che vive e lavora a Parigi.

L’ “ascolto dell’infinito”, la luce, intesa come elemento basilare dell’essenza umana e cosmica, le atmosfere oniriche, costituiscono le caratteristiche fondanti delle “visioni” di Emilio D’Elia. Il percorso artistico-spirituale del pittore pugliese, che vanta una carriera artistica a livello internazionale e l’attenzione di critici tra i quali, solo per citarne alcuni, Francesco Moschini, Paolo Balmas, Francesco Poli e Gerard-George Lemaire, è finalizzato a “rendere visibile l’invisibile”, nella prospettiva di un nuovo umanesimo della pittura. Per la rubrica Focus on Artist, Lobodilattice ha intervistato Emilio D’Elia, al fine di approfondire le diverse tematiche della sua opera.

 

A proposito della tua formazione artistica, quali sono stati i tuoi maestri, i tuoi punti di riferimento?

E’ difficile fare un elenco. Fin dalla mia giovane età, agli inizi del Liceo Artistico, dopo la scoperta di Van  Gogh e dell’arte greca, che ancora oggi mi commuove, i miei punti di riferimento sono stati Fra’ Angelico, Antonello da Messina…poi mi hanno affascinato i blu infiniti di Giotto, la genialità visionaria di Leonardo, la bellezza sensuale di Raffaello e di Botticelli, i ritratti e le madonne di  Lorenzo Lotto, il misticismo di William Blake, i paesaggi di J.M.Whisteler, i silenzi di De Chirico e di Morandi. Aggiungerei i maestri di vita che ho conosciuto durante il mio percorso artistico. Poi, viaggiando e visitando musei, pinacoteche, mostre ci si “impregna” di tutta questa bellezza e ce n’è ne tanta. Così, nel corso degli anni, ho iniziato a “guardare sempre di meno”, rivolgendomi invece alla memoria interiore. Visionarietà e solitudine hanno fatto il resto, diventando le mie compagne di viaggio.

Dopo gli studi al Liceo Artistico e all’Accademia di Belle Arti di Lecce ti sei trasferito a Roma, e successivamente a Parigi. Com’è maturata questa scelta? E quali sono state le esperienze più significative, a livello artistico, che hai vissuto in Francia?

Il mio paese di provincia, dopo gli studi, mi stava stretto: non vi era alcun fermento artistico-culturale (come ancora oggi).  Ero solo con me stesso, in solitudine assoluta, tranne qualche viaggio tra Lecce e Bari, dove c’erano delle gallerie che presentavano qualcosa di interessante. Poi, per la mia tesi sull’arte contemporanea, feci un viaggio a Roma per intervistare alcuni artisti che avevano suscitato in me un interesse particolare, che sentivo affini alla mia sensibilità e che rientravano nello spirito della mia ricerca per la tesi.

A Roma fui folgorato, ancora una volta, dalla bellezza della città. Questo sentimento, e l’incontro con il mondo artistico romano, mi convinsero a lasciare il mio paese ed a trasferirmi nella Capitale. Così, subito dopo, mi installai nel mio atelier, nel quartiere San Lorenzo. 

Dopo meno di un anno dal mio trasferimento a Roma, la galleria A.A.M, sotto la direzione artistica di Francesco Moschini, mi dedicò una mostra personale: “Primo-vere”, termine che in latino significa “all’inizio della Primavera”.  Alcune immagini delle mie opere furono pubblicate su varie riviste d’arte, tra le quali Flash Art.  In particolare, il lavoro intitolato “Giardino” venne notato da un gallerista di Parigi, Damian Boquet, che mi contattò proponendomi di trasferirmi nella capitale francese. Dal canto mio, da diverso tempo stavo maturando l’idea di lasciare Roma per trasferirmi a Berlino. Hans Ulrich Obrist, che visitò a più riprese il mio atelier, fece conoscere il mio lavoro ad Agathe Nisple, una gallerista di Saint Gallen, in Svizzera.  Agathe Nisple  organizzò  dunque la personale “Mandalaluce” e, sempre nel corso del 1989, la gallerista presentò il mio lavoro alla Fiera di Francoforte. Intanto, anche la Kouros Gallery di New York propose le mie opere alla Fiera di Chicago. Tutto, per me, andava per il verso giusto, in direzione di una mia nuova destinazione e, come decisione finale, optai per Parigi.

I miei amici collezionisti di Roma mi fecero un bel regalo: a sorpresa allestirono alla galleria A.A.M., con la complicità di Francesco Moschini, una mostra con tutte le mie opere da loro acquistate. “Una giornata particolare in via Albalonga” era il titolo del catalogo stampato  in occasione dell’evento. Una volta arrivato a Parigi entrai subito in contatto con il mondo artistico della città. Risale a quel periodo l’incontro con Marco Del Re, Guillaume Dègè, l’illustratore Izak e con il critico Gerdard George Lemaire, che curò il testo critico per la mostra, dedicata a Erri De Luca, che si svolse nel 1996 alla Libreria Tour de Babel a Parigi.  Molto importante per la mia formazione è stato l’incontro e la frequentazione con Francesco Poli, che curò la mia mostra all’Istituto di cultura italiano a Parigi, intitolata “Terre di Cielo”. Un altro incontro decisivo è stato quello con il filosofo Paul Audi, che, dopo aver visto una serie di miei lavori su carta esclamò: “Je suis impressionnè” e assimilò la mia opera a quella degli “enlumineurs”, gli artigiani che, anticamente, lavoravano sui codici miniati. Poi feci delle mostre da Damian Bouquet, Vidal Saint Phalle, Etienne de Causans e partecipai a due edizioni della fiera di Bruxelles. Questi eventi mi fecero desistere dall’intenzione di rientrare in Italia.  L’idea iniziale era quella di restare a Parigi per un anno, invece, dal mio trasferimento, ne sono passati quasi trenta.

 

Quali differenze hai riscontrato nel sistema dell’arte francese rispetto a quello italiano?

In Francia sono super attivi, basti pensare alle strutture museali e alle grandi gallerie che investono molto nell’arte e negli eventi artistici. Queste istituzioni lavorano con grande rispetto per gli artisti, con puntualità e organizzazione. Le gallerie, in Francia, svolgono un ruolo promotore dell’arte contemporanea e sono riconosciute come istituzioni culturali. Vi è, dunque, una grande differenza rispetto al sistema italiano, che invece conta grandi gallerie situate quasi tutte al Nord Italia. Il sistema francese, invece, non ruota solo attorno alle sedi di Parigi (che resta comunque un nucleo importante), ma include anche il resto del territorio, dove sono presenti tantissime gallerie dislocate nella provincia, tra le Alpi marittime e la Costa Azzurra. Quest’area è la seconda regione caratterizzata dal maggior numero di gallerie attive nel sistema contemporaneo francese, un esempio per tutti, la Fondazione Lambert ad Avignone.

Da ricordare, inoltre, gli appuntamenti a livello internazionale, come quello della FIAC, fiera che raccoglie le gallerie più prestigiose, o i saloni internazionali, o ancora il Louvre, che ha aperto i suoi spazi anche all’arte contemporanea. Vi sono poi gli atelier degli artisti, aperti periodicamente al pubblico per favorire un dialogo tra l’artista ed i visitatori. Negli atelier, in cui l’artista fa la sua autopromozione, si possono acquistare anche le opere esposte. Non posso trascurare, inoltre, di menzionare la Maison des Artistes, un’istituzione per gli artisti che prevede l’assegnazione delle case-atelier. Per il resto, attualmente, tutto è omologato anche nel sistema francese: vi sono grandi gallerie che aprono e spazi enormi gestiti da un potere economico importante. Per esempio, in questo momento, hanno aperto a Parigi le nuove sedi della White Cube Gallery di Londra e della galleria David Zwirner di New York, con i suoi 1800 mq nel quartiere Le Marais. Anche queste gallerie risentono, come tante altre gallerie, per la crisi economica, dato il difficile periodo che stiamo attraversando.

 

La tua poetica si basa su un intenso rapporto con la spiritualità; hai affermato, infatti, che sei ispirato dalla memoria visiva e che ritrai “personaggi di altri mondi ed altre epoche”, rendendo “visibile l’invisibile”. Puoi spiegare il tuo rapporto con la sfera dell’immateriale?

Certo, penso che noi uomini siamo esseri spirituali che abitano un corpo fisico. L’uomo spirituale non guarda l’immagine esteriore, che è effimera e limitata. Il nostro corpo è memoria, gli occhi sono memoria. Immagazziniamo immagini per mesi, anni. Queste derivano dal quotidiano e anche dalle nostre vite precedenti. Puoi immaginare, dunque, il deposito di memoria che abbiamo interiorizzato? E’ dal magazzino infinito della mia memoria interiore che scaturisce tutto quello che dipingo. E’ questa la sorgente autentica delle mie opere. Così do vita ai miei paesaggi interiori, ai luoghi della mia nascita. Il mio sguardo è sempre rivolto al mio universo interiore, perché, a mio avviso, noi siamo esseri spirituali, depositari della scintilla divina. Ho sempre avuto un profondo rapporto con la sfera dell’immateriale. Fin da ragazzino ho sempre “sentito” le energie degli oggetti e dei luoghi che visitavo ma, soprattutto, quelle che provenivano dalle persone. Inoltre, alcuni avvenimenti e delle visioni che ho avuto durante l’infanzia hanno accentuato questa mia sensibilità verso l’immateriale. Tutto questo sentire - che ho trasformato attraverso la pittura in segni, colore, immagini -   con il tempo si è trasformato e ha arricchito la mia ricerca creativa. In effetti, non si può dire propriamente che io “ritragga” dei personaggi: essi affiorano dal fondo della tela e della carta, sono delle labili “silhouette” - immerse in paesaggi dai vapori brumosi - alle quali io, accentuandone i contorni, do vita e forma, che mi “in-forma” delle immagini inizialmente latenti. 

Tra i filosofi, artisti e poeti che hanno ispirato il tuo percorso artistico - da Novalis a Kandisky, da Leopardi a Tagore e Cristina Campo – c’è Plotino con  la sua architettura cosmogonica, basata sul concetto dell’Uno come archè, principio di tutte le cose che, per il filosofo greco è anche “àpeiron”, infinito. Inoltre, a proposito della tua ricerca, Francesco Moschini ha scritto: “Con la luce, D’Elia vuole costruire strade e ponti per colmare le distanze infinite tra le diverse forme di vita  ed i diversi linguaggi dell’universo”.  Cos’è per te l’infinito? E qual é la tua concezione della luce nella rappresentazione artistica?

Penso a questi filosofi e scrittori “luminosi”, e la mia opera è un modo per omaggiarli.  Sono vicino a Plotino e Tagore in primis, perchè la bellezza del loro pensiero è strettamente legata al concetto di amore ed a quello di infinito. E’ così anche per tutti gli altri, per il loro sguardo sempre teso al cielo, all’assoluto, per la loro profonda spiritualità e filosofia, che è per me grande fonte di riflessione. E’ un dovere, per l’artista, creare dei ponti con l’infinito. Perchè per me l’infinito è il divenire, il brivido che percorre l’anima, lo svelamento del nostro mistero, l’essenza che ci spinge a continuare la nostra ricerca dell’assoluto. E’ essenziale ascoltare l’infinito, porsi in equilibrio, o meglio in simbiosi con esso attraverso le azioni quotidiane e trovare il nostro posto al suo interno. L’infinito è come uno specchio riflettente che ci aiuta. Noi viviamo nello spazio cosmico ed il nostro passaggio sulla Terra è necessario. Attraverso la nostra esperienza terrena, infatti, e superando i limiti della nostra mente dualistica, il nostro essere può approdare, attraverso la riflessione, ad uno stadio superiore della coscienza. Siamo “viaggiatori e necessari passeggeri”, per il poco tempo che abbiamo a disposizione, e bisogna predisporsi al superamento delle dualità soggetto-oggetto, tempo-spazio, sviluppando una coscienza cosmica unificante. Solo allora l’uomo realizzerà il suo essere nell’infinito. Così la luce ci può portare alla conoscenza di noi stessi. Luce che è atomicamente depositata dentro di noi, perché siamo bagaglio e deposito di luce. Questa è una cosa reale, secondo me. Per me la luce è tutto, è l’essenza della mia arte, è un mezzo per sviluppare coscienza, per provare empatia, per creare legami con gli altri, per costruire ponti tra  esseri, mondi e culture diverse. Ci sono degli accadimenti che passano attraverso l’invisibile e che la luce rende visibili. Cosí, attraverso la luce, possiamo viaggiare lontano, alla ricerca della “bellezza prima”. Perchè la luce è sempre all’interno di un “disegno”.

La tua ricerca è permeata dalla sehnsucht romantica e dall’anelito verso il sublime. Sempre Moschini ha definito la tua opera come caratterizzata da una “tendenza verso il simbolismo” e dal richiamo al mito. Come nasce la tua ispirazione nella realizzazione di un’opera?

Per me non c’è struggimento o sofferenza, ma coscienza e gioia di appartenere a questo meraviglioso “tutto”. Le definizioni di Moschini facevano riferimento ad un momento particolare della mia ricerca, adesso sono passato ad altre visioni. Per quanto riguarda la realizzazione della mia opera, essa nasce perché deve nascere. Innanzitutto voglio dire che mi alzo all’alba, quando tutto intorno è calmo e silenzioso. Quando lavoro, infatti, ho bisogno di immergermi nel silenzio totale per pormi all’ascolto di me stesso. Così mi metto a lavoro, parto da un’idea, un’immagine che ho maturato in un percorso introspettivo. A volte, ho bisogno di più superfici per finalizzare il mio lavoro, così nascono dei cicli di lavori. In questo periodo, in particolare, sto lavorando ad un ciclo di lavori su carta che io chiamo “diario dei giorni luminosi”. Per me realizzare  un’opera è come comporre una poesia.

Può succedere di tutto mentre lavoro: incidenti di percorso sulla tela o sulla carta, segni indicatori che infiammano la mia ispirazione. Oppure può accadere che, varcata la soglia del mio studio e riguardando i lavori lasciati ad asciugare il giorno prima, noto che questi hanno riportato alla superficie delle immagini che durante il corso d’opera non avevo intravisto. Da qui una misteriosa e magica sorpresa che mi meraviglia. Tutto questo, alla fine, concorre alla mia ispirazione.

 

Paolo Balmas ti ha definito “visionario”, descrivendo così la tua poetica: “...Fiumane d’incontaminata energia, immense ed immobili come galassie, orizzonti di puro silenzio e nicchie accoglienti di vuoto assoluto, luoghi di verità dove tutto può nascere e le parole non servono e non ha senso pensare”. In effetti, i soggetti da te ritratti sono senza spazio e senza tempo, sembrano sospesi nel vuoto, in contesti che, a tratti, richiamano la pittura metafisica. Cosa  rappresentano, per te, il silenzio ed il vuoto?

Essere definito “visionario” è per me un grande omaggio.  Mi nutro d’immagini di bellezza e silenzio. Vivo con gioia questo miracolo che è la vita, all’interno di questa immensità  straordinaria.

Il silenzio è il ritorno alle origini, ad una verginità, ad uno stato di purezza del mondo. Il silenzio è per me la parte ignota della vita. Già scrivevo, nel lontano 1993: “Nei silenzi incontrerai la strada, la tua luce, avrai la tua trasfigurazione nei silenzi”. Nei silenzi, a mio avviso, si abbraccia il “tutto”. Il silenzio è abitato. Abbiamo bisogno di silenzio per riappacificarci con la nostra anima, soprattutto in una società come la nostra, spietatamente rumorosa ed inquinata da fragori inutili. Nel silenzio possiamo ascoltare il nostro essere spirituale, la nostra voce interiore.

Per questo, con la mia arte, cerco di mettere l’uomo al riparo dai rumori del mondo. Ecco, per me il silenzio corrisponde al ritirarsi in “giardini da curare”, con dedizione e attenzione alla “grazia”. Tacere è tracciare un segno: “Viviamo nel vuoto che tutto contiene, che tutto ritorna”.  Per me il vuoto è calmo. E’ il luogo delle manifestazioni delle possibili epifanie, costellate di silenzi. E’ lo spazio bianco da investire. E’ il futuro fertile che ci attende.

I colori che adoperi sono il blu ed il giallo, mentre, per quanto riguarda i materiali, usi i pigmenti naturali, diluendoli fino a rendere un effetto acquerello molto particolare. Come nasce questa tecnica?

La tecnica risale agli anni Ottanta, all’inizio del mio soggiorno romano. Amo molto la carta e fin da allora iniziai ad incollare dei grandi fogli di acquerello e carta giapponese su degli enormi pannelli di legno montati su telai. Mi servivano dei colori “complici” per mettermi all’opera. Iniziai così a lavorare ed a sperimentare i pigmenti naturali “esasperati” dall’acqua, perché per me acqua e pigmenti preservano quelle energie cosmiche e quelle corrispondenze mistiche che sono l’origine, il mezzo e l’intero scopo di tutta la mia arte. Ancora oggi continuo ad utilizzarli: li sento molto affini, intimi. Le trasparenze che riesco, dunque, ad ottenere, mi danno la possibilità di “intra-vedere” gli accadimenti sul fondo della tela e della carta. Così, le immagini più eteree e delicate, gli oggetti dai contorni più fragili che affiorano a fine lavoro, risultano più intensi, più forti. E tutto questo movimento liquido, tutte queste velature ed immagini fluttuanti  mi aiutano a mettere ordine nella fase finale per “s-velare” il mistero che c’è in ogni opera.

Per quanto riguarda il blu, questo, nella sua nuance oltremare, è per me il colore più spirituale. E’ il colore che rappresenta il cielo, l’ignoto, il cosmo. Certo, tutto questo blu e le sue sfumature sarebbero nulla senza la presenza del giallo, che uso per rappresentare la luce.. “lux” come io la chiamo, che rischiara il visibile e l’invisibile, regalandomi così tutta la luminosa bellezza interiore riflessa nell’opera .

 

L’ iper-tecnologizzazione dell’arte contemporanea ha avuto degli effetti anche sul linguaggio della pittura, considerata “di moda” a fasi alterne. Cosa ne pensi in proposito?

Penso che, a tratti, l’iper-tecnologizzazione dell’arte contemporanea (e gli artisti che la praticano), abbia influenzato in parte il linguaggio della pittura, nel confezionamento di opere “che funzionano”.

Siamo in un passaggio epocale significativo e, anche se ci sono tanti artisti con molto talento, assistiamo ad una tabula rasa del linguaggio pittorico. Attraverso il digitale è stato intrapreso un percorso di rivoluzione del manufatto artistico. Cosa resterà nella nostra memoria collettiva? Cosa ne sarà di quel sogno eterno dell’immortalità dell’opera, che i maestri del passato - che ci hanno regalato tanta bellezza - hanno pagato con le proprie vite?

La tecnologia, la realtà aumentata, il digitale sta distruggendo tutta la memoria storica. Vi sono lavori senz’anima, dinanzi ai quali non riesco a commuovermi e a meravigliarmi.  Perche è bello meravigliarsi ed è tragico non esserne capaci.

Oggi, l’arte e la comunicazione sono iper-veloci, tanto da fare acquisire il prodotto finale in tempi brevissimi, così come è fin troppo veloce il processo di valorizzazione e legittimazione dell’artista. Nell’epoca attuale, gli artisti sono molto informati, abili nel districarsi nel mondo dell’arte e nel proporre novità, adeguandosi alle tendenze ed alle mode del momento. Ne consegue il dilagare dell’epigonismo, del divismo, e di lavori che mirano al sensazionalismo.

Ma, con tutta questa velocità, gli artisti negano il proprio essere spirituale. E molti credono che la pittura, le mostre, i cataloghi, non servano più a niente, che tutto questo sia acqua passata. Dunque una riflessione s’impone: io credo in un nuovo umanesimo del linguaggio della pittura, un linguaggio dell’anima finalizzato a costruire un ponte tra la vita e l’arte per colmarne il divario.

Io continuerò a lavorare con la pittura, perchè è quello che so fare, mettendomi al servizio degli altri. Perché l’arte è un dono, e praticarla è un dovere verso l’umanità. E’ questo tutto ciò che mi spinge ad alzarmi la mattina e ad andare nel mio studio per continuare a creare, anche in un momento storico così subdolo e drammatico come quello che stiamo vivendo.

Per concludere, credo che ci saranno generazioni di artisti sempre più complesse, in un’era dominata da una tecnologia che sarà sempre più esasperata. E, forse, solo allora ci si renderà conto dell’importanza e della sacralità  dell’immagine interiore dipinta, il resto lo farà la legge della ciclicità degli eventi, ristabilendo in un futuro gli equilibri nel cuore degli uomini. Intanto, però, tutta questa iper-tecnologizzazione, questa estrema velocità, non renderanno l’uomo-artista più umano nè più sincero.

 

A tuo avviso l’arte è rivoluzionaria?

L’arte deve essere rivoluzionaria, per far scaturire tutta la bellezza e luce possibile che abbiamo dentro di noi e per restituire questi doni al mondo.

Oggi assistiamo ad un inquinamento all’interno del sistema dell’arte. E’ ora di dire “basta” ad un momento storico che vede gli artisti isolati e chiusi nei loro studi, trincerati nel proprio individualismo. Dov’è il confronto? Dov’è il dialogo? Nella pratica artistica, che è una strada pericolosa, abbiamo bisogno di anime presenti, lucide, chiaroveggenti, con profonde radici nella coscienza. Ma oggi, all’interno  del sistema dell’arte, a mio avviso è molto difficile “intra-vedere” una Rivoluzione. Io sarei per una “rivoluzione dello spirito” che tenga sempre l’uomo in relazione con l’altro. Una relazione stretta anche tra l’uomo, la natura e le energie che essa emana.

 

Cecilia Pavone

 

 

 

Note biografiche Emilio D’Elia

Dopo gli studi al Liceo Artistico e all’Accademia di Belle Arti a Lecce, Emilio D’Elia (San Pietro Vernotico, classe 1958) si trasferisce per diversi anni a Roma. In seguito si stabilirà definitivamente a Parigi, dove attualmente vive e lavora, alternando soggiorni regolari nel suo atelier di San Pietro Vernotico, in provincia di Brindisi. Ha esposto in gallerie nazionali ed internazionali. Le sue prime mostre risalgono alla fine degli anni ’80, e alcune di queste sono: “Primovere” – galleria A.A.M. di Roma, “Mandalaluce” – galleria Agarhe Nisple St Gallen – Svizzera, “Giardini Stellari” – galleria del Falconiere – Ancona, “Piccolo Formato” – Kouros gallery di New York, “Celeste” – galleria di Damian Bouquet a Parigi, “Terre di Cielo” – Istituto italiano di cultura – Parigi, “Libri d’artista” – galleria Demetra – Milano.

I lavori di Emilio D’Elia sono stati presentati in diverse fiere, tra le quali le fiere di Francoforte, Chicago, Bruxelles, Artissima, Arte Verona, Attualissima – Firenze e le sue opere figurano in collezioni pubbliche e private tra le quali: Collezione A.A.M. di Roma, collezione Ferruzzi finanziaria – Ravenna, collezione d’arte moderna e contemporanea Accademia Carrara, Bergamo