LOBODILATTICE

Demeter

Inaugura

Domenica, 2 Settembre, 2018 - 16:30

Presso

11Dreams Art Gallery
Via Rinarolo, 11/c Tortona

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Sostra

Fino a

Domenica, 16 Settembre, 2018 - 18:30

Demeter

Comunicato

 

Tempo di Demeter,

sulla copertina, morbida e plastificata, di Dracula di Bram Stoker in edizione integrale della Newton, Grandi Tascabili Economici, Lire 3900, domenica 25 febbraio, ore 16.45, nevischio con vento, dicono siberiano, in accentuazione nei prossimi giorni, bollettino meteo, nautico: Tempo di Demeter.

Il sottotitolo recita "La storia del vampiro più famoso di tutti i tempi", a cura di Paola Faini, introduzione di Riccardo Reim.

Della copertina: c'è la riproduzione, di un dipinto, di dimensioni quadrate tirate in altezza il doppio del necessario, medie dimensioni, forse piccole, perché piccola è la riproduzione. Il dipinto su tela cui l'immagine si riferisce non è in un formato quadrato, ma le misure hanno un tre e tre volte quattro. La luna contemplata si trova nell'angolo superiore destro del quarto inferiore sinistro della tela di lino. Un quadro che cominciò a guardarmi con un invito al dialogo feroce, a scrutarmi tra foschia, penombra e fogliame, in ogni caso, pensavo, congetturavo, non speravo ma virriniavu, con interesse, in quella radicale ambientazione di una sera volta in notte fatta di terra e di forza della terra, undici lustri or sono ─ ho sempre affiancato a questa unità di misura la luna, perché non il dito, ma la mano, indica, coprendola, quella luce danzante, instabile e tripla ─, mezzo secolo e un decimo di mezzo secolo; non ne è l'etimo, ma si scherzava sul mio cognome centenario latino; molto più interessante e meno scherzoso condurlo, ancorché nell'etimologia errata, nel rutilante significato di secolarizzazione, appropriazione, parola che a certa gente punge sui grassocci fianchi. Ahi! Vi fa male? Avevo un conto aperto con il sole al tramonto nei pressi, o davanti: al di là di un cimitero. I miei occhi avevano aperto il conto e la sfida; il sole era lontano, non immaginavo quanto.

Lo copiai, "La luna e compagnia", quel luogo conteso da alberi ribelli e alberi acquiescenti, con la vittoria personale dei primi sui remissivi secondi, all'età di undici o dodici anni, a tempera su tavola di compensato, di dimensioni inferiori, stavolta perfettamente quadrate, rispetto all'originale, traendolo da una delle "maravigliose " pagine ─ beige, così come le ricordo oggi ─ dell'enciclopedia in volumi con la copertina rossa cartonata che per nome aveva un termine circonfuso di illuminanti scintille: Conoscere.

A quel tempo, quindi, pagine piene di meraviglie, ma se mi capitasse ─ non ho il desiderio e neppure il bisogno ─ di sfogliarle adesso, sicuramente le troverei in gran parte viziate dalla mentalità che ben conosciamo; la potenza del verbo, però, è rimasta immutata, invariata, inalterata, inattaccabile al variare di epoche, avvenimenti, uccisioni di massa e illuminismi di frontiera. Conoscere è volontà di potenza, verbo nemico primo di chi la conoscenza da duemila anni continua a condannarla a morte, sostituendola con la stitica fantasia retriva e rauca catarrosa, avvalendosi di pezze d'appoggio quali superficiali ed elementari favole e comportamenti conseguenti la cui menzognera teatralità di cerimoniali ripetizioni in venti secoli non è cambiata di una virgola, basando tutto su una supposta, innaturale, non dimostrata, mai dimostrabile resurrezione.

Apparteneva ad una mia lontana cugina, il volume che ora invoglia il richiamo alla memoria, ma questa, si sa, col tempo si frantuma, o si slava, si annacqua, a volte s'inchioda senza smettere di chiedere quale e perché, sicché non ricordo se quel cremisi era di pelle finta o tela incollata, al tatto lo vedo liscio, ma sarà così nella memoria? Sarà stato così tra le mie imberbi mani e terrose unghie di cinquantacinque anni fa? Negli archi a tutto sesto (vi vedo) che mai e poi mai immagino impolverati della memoria? Così pure a lei appartenevano gli altri volumi dell'intera collana. Intera? Forse. Sì, archi a tutto sesto, e acquedotti, fuoco tra gli archi. Fuoco tra gli archi! ─ Fuoco! fuoco sugli archi! ─.

Questa mia parente, di cocchi annu chiù granni di mia, abitava in una casa nella quale si accedeva attraversando una stretta porta divisa in due, di legno pieno la parte inferiore e fino all'altezza di una ottantina di centimetri, con vetro in un telaio di legno la restante superiore, più alta della precedente e di solito aperta ─ spalancata ─, cosa che permetteva anche da fuori l'apertura dell'altra chiusa con un chiavistello interno; si aveva così accesso ad una strettissima cucina, una cucina-corridoio, le altre stanze erano poi distribuite su più livelli a partire dal piano terra, ed è sul tavolo stretto di quell'angusta ma non soffocante zona cottura-lettura che mi vedo a sfogliare il contenuto di quell'impagabile lemma e verbo che era, è, sarà "conoscere". "In principio fu la conoscenza", avrebbe avuto la sufficienza e altro ancora, senza mortifere punizioni e incarognite complicazioni. La conoscenza è in divenire, e saltella in tutte le direzioni; un fa chi satari, sarebbe stata quindi la morte di chi si fosse arrogato il merito di averla creata, di cu l'avissi ammintata (i congiuntivi siciliani).

Conoscere: Ok, e tutto ebbe inizio. Gli odiatori della conoscenza. La conoscenza dei bambolotti senza ombelico. La conoscenza proibita da un vendicativo vecchio. Che fantasie malsane! L'impiccagione di ragione, logica, fantasia costruttiva e immaginazione metodica.

Mezzo secolo fa, nei paesi della Sicilia, gli spazi interni delle abitazioni, in taluni casi ridotti, davano direttamente sulla strada, molte di queste erano ancora acciottolate, e d'estate ─ lì dura di più che da solstizio a equinozio ─ il tratto di via sul quale si affacciava l'abitazione diventava un prolungamento degli ambienti domestici di giorno utilizzati, un salotto en plein air, perciò mai si aveva la sensazione di stare in posti ─ benché non di grandi dimensioni ─ dove la possibilità di movimento fosse limitata e l'aria mancasse; il vento, poi, assai frequente, e la circolazione in corrente tra gli infissi socchiusi, contribuivano ad una libertà di respiro che i muri spessi del piano terra mantenevano accettabilmente fresco. Gli architetti venuti dal nord hanno cercato, in loco, di scimmiottare, senza comprenderne il senso ─ scortati anche dalla orrenda loro visione ideologica della cosa (altrui) di tutti ─ l'uso che della strada veniva fatto, fabbricando quegli orrori-spazi-comuni-collettivi dalle loro menti impreparate progettati. Il collegamento a distanza orrenda-orrori è voluto.

Una grossa matita, simile alle rosso-blu di scuola, nei colori azzurro acqua e bianco schiuma, in una bottiglia tappata con sughero e affidata alle onde. "Io scrivo con l'acqua del mare", pronunciai queste parole alla luce di una candela davanti ad una linotype. Ecco, la matita bianca e azzurra affinché il pallido colore del mare e dell'acqua, dimenandosi, dica no al cielo.

Sono foglie secche, non macchie in luce radente.

La conoscenza. Oggi ho in mente la Dama del Pollaiolo, il Ritratto di Dama ─ tratto più, tratto meno ─; dalle pagine già allora giallognole di carta spugnosa alla doppia o tripla silhouette del Poldi Pezzoli è ben ampio il salto in lungo e in passo ─ tratto più, tratto meno. Capitolare. Impersonale sagoma ritagliata, una delle figure ubriache e statiche, e quell'invasione disturbante in via Manzoni ─ il letterato: cos'è mai il Bel Paese! Lo scultore che da ateo non ha fatto altro che occuparsi di papi e cardinali, e l'artista del caolino, corpi d'aria ed escrementi ─, tra marchio, stendardo, armigera scenografia, tra lamierino e clonazione, sdoppiamento e moltiplicazione. Disturbante ora ritengo non la contiguità nella visione da fotografica a reale, ma ciò che, ritenuto di rilievo, al contesto chiedeva di essere tale e per di più sottoposto; e ancora, periferico intorno che dovrebbe abbracciare il vuoto anziché timpani e guglie. Illimite e storno. Perché in modo così impersonale? Non mi aspettavo che mi dicesse così la bella insegnante all'arrivo per posta del catalogo-invito di una delle mie prime personali. Ma nella pittura di quegli anni non c'era posto o spazio che dir si voglia per galanteria e bon ton, come in questo caotico intreccio di rimandi, qui grammaticali con deviazioni strategiche e granfie sintattiche. Divertitevi. Avanti, i riguardevoli cosiddetti autonominatisi specialisti, volendo parlare di arte in genere, potrebbero scrivere posto a sedere e spazio anziché spazio e luce, la luce è ciò per cui si sta seduti se c'è spazio.

Nietzsche, artista e filosofo. Il resto, tranne rare eccezioni, è noiosa, lapidea marmaglia, dell'uno e dell'altro ramo; ah, quel terribile incipit vegetal-lacustre-sponsale-italiano! Scolastico, obbligatorio, punitivo, cupo, rassegnato, succubo, succubà, succubé.

"La fede è credere in cose che sappiamo non vere", Twain, lo scolaro, Stoker, Van Helsing, Herzog, Lucy-Mina-Adjani.

La disegnai, la Dama di profilo, la Gentildonna dei fascicoli di qualche anno a seguire, su tela non intelaiata, cotone con uno strato di cementite, senza mai completare il disegno col colore, in grandezza naturale rispetto non alla riproduzione ma al dipinto originale che ovviamente non avevo davanti. Il profilo di donna col naso all'insù mi viene in mente, quindi, e, appunto, Friedrich, Un uomo e una donna davanti alla luna, di Caspar Friedrich. Preferisco l'osservazione alla contemplazione.

Pollaiolo, Antonio, scultore e pittore; mentre monumentale era la donna ritratta, nulla di imbattibile avevano l'Ercole e Anteo, piuttosto mingherlini e cozzavano con l'idea che i film mitologici di allora davano di eroi, dèi, semidèi, titani, giganti e guerrieri greci. La tempera tratta dall'olio di Friedrich l'ho ritrovata un paio di anni fa, dopo averla periodicamente cercata per alcuni decenni senza mai riuscire ad individuare il luogo, la tana, il nascondiglio nel quale potesse essere così magnificamente celata alla mia vista. Sembrava sparita nel nulla; mi chiedevo, difatti, a volte, se ancora esisteva o, per un motivo o per l'altro, per sbaglio, pi sbarazzari, fosse stata gettata via, o cancellata, o distrutta. Eppure ─ a saperlo ─ era tenuta in serbo assai bene da un mobile vetrina, custode della quantità di luce che non ricordavo così chiara e diurna, scelta, quella del tono, certamente intenzionale; la lunga permanenza al buio ha fatto sì che il colore del supporto legnoso non si sia inscurito o sia di poco cambiato, questo ha contribuito a mantenere l'aspetto iniziale delle tinte. Alcuni pigmenti vengono modificati dalla luce, anche dalle mescolanze per reazioni dovute ad incompatibilità tra i componenti, succede alla terra d'ombra naturale, mentre non pare, è bensì certo, è cosa giusta, che le terre calcinate abbiano una stabilità maggiore, di sicuro possiedono un calore che le altre non hanno, dovuto all'azione del fuoco, dell'elevata temperatura che le ha fatte diventare quelle che sono: come si diventa ciò che si è ─ "Hai la terra bruciata attorno a te" ─. Siamo in due a parlare, chi questo mi dice e io che lo ripeto.

Perché avevo dunque mutato quella sera che sa di notte in giorno? Domanda. Domanda? Ma no, non è che sia così importante e muoia per una mancata risposta. La qualità non è elevata, ma il dipinto per me aveva significato tanto, e di quel tanto, sia al ritrovamento, sia tuttora, riesco a ricordare solo un alone sfumato, una minima parte, mi sembra di acchiapparlo ma poi continuamente si sposta e sfugge, si spegne. Qui sta il fuoco.

Questo scaffale, nella parte sottostante chiuso da tre coppie di ante di legno e sopra da altrettante ante, più alte delle inferiori, che con vetri coprivano due file di ripiani orizzontali, dopo la chiusura del negozio era stato sistemato da Vita e Leonardo nel sottoscala, insieme a libri, biancheria, roba di vario genere e due grosse brunnie zeppe di bottoni di ogni sorta, foggia, dimensione e colore. Il quadro si trovava addossato al muro dietro quel mobile. Due punti non-morti.

Conoscere: che parola! Già in sé grandiosa, nel suono, nella pronuncia, piena di meraviglie, di inviti; la prima trasgressione nella prima puntata di un mito in partenza sfatto e impastato di profonda tristezza, miserando mito creato per essere subito dopo oggetto di punizione, per sfogare chissà quale risentimento e sul quale indirizzare fin da subito un'ira punitiva che non ha logica spiegazione, seppure nell'ambito e con evidenza palese anche ai ciechi trattandosi di un personaggio inventato già astioso e collerico; terra e costola con annesso subordine, in assenza di ombelichi, che contornandosi in seguito di altri miti di simil fatta, ammugghiannusi 'nta un 'mrogghiu dopu l'avutru, con inverosimili, facilmente sbugiardabili, macabri, cruenti, banali racconti e menzogne d'ogni tipo, ha reso ottusi i cervelli umani frenandone ogni slancio, impedendone il normale divenire, cioè una lesta e onesta evoluzione con suolo, acqua, aria, animali e piante, anziché, così come è avvenuto, inzuppare ─ con godimento che è aspirazione alla morte ─ di pianto questo asciutto sommario di un interminabile elenco di forze vitali. La valle... e il resto lo sappiamo.

Conoscere, due punti non morti. La conoscenza ha dentro di sé la spinta a praticarla, a sviscerarla, aprirla, sezionarla, prenderla sotto le ali, farsi sostenere e con essa imparare a volare e se necessario a cadere per risollevarsi forti più di prima, irremovibilmente contrari a gratuiti, inutili, stupidi divieti. La conoscenza!

I nemici della conoscenza: l'angheria come mito. Un sorriso all'incontrario.

Dal rosso all'avorio, tra parole e immagini, i libri di questa ragazzina, cugina di secondo o terzo grado, figlia e sorella di falegnami. Il padre me lo ricordo con le dita marroni, quasi nere, e delle trasparenze rossastre, tinta mogano, come era in uso chiamare quel colore diffuso e versatile; a causare il viraggio delle falangi, impregnanti e vernici usati in una vita di lavoro e che ormai facevano parte della pelle come tatuaggi; il fratello, che aveva una quindicina, forse meno, di anni più di me, era colui il quale mi metteva a disposizione il legno che mi occorreva per telai ─ le tele a casa mia non mancavano ─ e supporti vari, come compensato, truciolato, anche tavole, scarti che non utilizzava se non per far fuoco e che a me invece tornavano utili. Quanto mai utili. C'è uno strano piacere, uno stimolante sghiribizzo d'eccitamento creativo, che mette accento e scioltezza alla via del trovare, che dà l'innesco ai botti dell'invenzione e dell'esecuzione, nell'adattare le idee ad un formato fortuito ─ al caso, al rimasuglio, al trovato ─ anche agli scarti che verranno, fino ad arrivare a quel progetto e quell'impresa che nel gioco dell'eterno ritorno sarà l'arredamento totale e totalizzante in Modulo 4, nel 1980; il negozio che, dalla porta d'entrata alla vetrina, dal banco alla parete-scaffale, le luci, il proiettore, il vetro smerigliato, i pesanti corpi scuri in plexiglass dell'esterno attorno alla porta, sarà l'individuo che sono, io e il mio corpo, con la mente al di fuori del corpo e che lo contiene; il mio pensiero di allora fatto materia, a vent'anni dal duemila il mio corpo di ventiseienne con dentro la testa che avrei potuto avere duemilaseicento anni prima. Non esiste più nulla; di quel corpo di legno, vernici e luci, di Modulo 4 nel grido finale di massimo splendore e di terra che genera, non esiste più nulla, tutto smontato e distrutto, neanche una fotografia; solo il progetto, forse, da qualche parte.

Dunque dei residui di un lavoro, quasi come scrivere su carta usata. I residui di un lavoro preordinato, una vera rimarcazione, non l'ultima sponda lessicale di un sinistrorso milionario bell'e andato. Èureka, eurèka? Un uomo e una donna al chiaro di luna.

Stamattina, 29 giugno, ore 8, al bar, davanti a un caffè e una brioche, un giornale verso il quale preferisco non usare aggettivi, nel lato destro di una delle pagine un titolo che cita Shakespeare ─ avrebbero fatto meglio a lasciar perdere ─, un certo Gallo, la riproduzione della tela di Friedrich tagliata in alto e in basso, il che dà al quadro un'apparente distorsione in lunghezza, ma questo a chi doveva scrivere meno per lasciare il giusto ─ il suo ─ spazio all'immagine è difficile da far capire. Nell'articolo ─ su carta ─ si parla di un libro ─ di carta ─ che parla dell'ultimo albero. Libro di cui l'autore, avendolo scritto, si augura di vendere il maggior numero di copie, con l'uso conseguente del maggior numero di tonnellate di carta. Di alberi. Non ci siamo. Non va bene, non è corretto.

Ma andate su in collina!

Tempo di Demeter sarà quello che partirà domattina.

Con freddo, neve e vento siberiani. Nelle giornate ─ settimanalmente una o due ─ nelle quali i miei genitori si spostavano a Palermo per lavoro, io andavo a stare da mia zia Margherita; in caso di pioggia insistente che nei pendii periferici delle vie non asfaltate ─ ancora tante quando ero bambino ─ diventava corsa di torrenti d'acqua e fango, mia zia, con preghiere e gesti propiziatori, come quello di gettare foglie o rametti di alloro dalle finestre ─ suppongo che avessero avuto una qualche benedizione, oppure perché la pianta è attributo di Apollo (siamo nella Magna Grecia), collegata quindi al culto del dio del sole ─ s'illudeva che smettesse di piovere. Le religioni sono fatte di questo: credulità, speranza, paura, tradizione che perdura perché la continuità è obbligo, preso per rassicurante anche quando non lo è, mancanza di connessione tra causa ed effetto, istinto magico, sottocultura magica, furbizia e convenienza di chi nell'ingenuità inzuppa il pane quotidiano e non solo il pane.

Quotidiano? La gente che faticava si ostinava a credere ─ perché glielo inculcava qualcuno nero dentro e fuori traforato di sanguinolenti pizzi ─ che venisse dal cielo. Bisogna capire che il cibo è dato dalla fatica e non dalla magnanimità, dall'umore, dalla misericordia, dal divertimento di chi, come apparizione fabbricata e così accettata dalla mente, non facendo un tubo da un'eternità, se la gode spaparacchiato passando da una nuvola all'altra, da un gruppo di asessuati angeli a un altro gruppo di angeli asessuati.

Il rumore stordente di ciò che non è errore ma tale ti convincono a considerarlo, di ciò che non è colpa ma questo scampanio in caduta libera ti fanno sentire, quindi querula penitenza prima, inchino a seguire, poi punizione, e, dopo prosternazione, perdono; che circolo nefasto! Che guinzagli, che catene cerebrali. Quanto è compatibile il caldo con un collare cilicio?

Oggi ─ la o maiuscola, anche la minuscola dopo la, somiglia al cerchio con la barretta verticale che indica spegnimento ─ ho spento una parte di passato, 25 febbraio 2018; sono le 21 circa. Stasera per la prima volta dormiamo nella nuova casa.

Dall'inizio dell'anno qui passavamo il giorno, pranzavamo e cenavamo, ma poi andavamo a dormire di là. Da stasera siamo definitivamente qui. Io e Mariella nella nuova casa; non è ancora del tutto in ordine ma c'è tempo. È iniziato, non finito, il viaggio della Demeter.

Ho fatto questi quadri, penso, nel 2002; su ritagli di tele grandi stelaiate. Ieri ne ho portato uno, l'unico che poco meno di un decennio fa ho rifatto, molto più grande, su pluriball; è un olio su tela, verniciato, che misi, anni addietro, dentro una busta di plastica per proteggerlo dalla polvere. La plastica si è incollata allo strato di vernice asportandola in più punti, cosicché il dipinto, visto non frontalmente ma di sbieco, quando la vernice riluce, ha un drammatico aspetto di corroso consumato, di imminente tempesta, e così lo lascerò senza verniciarlo nuovamente.

Ho portato questo quadro nella nuova casa, dicevo, e, dopo averlo contornato di un passe-partout di cartoncino rosso ─ una rimanenza di lavori precedenti ─ in modo da coprire la parte di tela prevista lungo i bordi per essere inchiodata al telaio che qui, come in tutti i dipinti di questo ciclo tranne uno, manca, l'ho appeso in alto nella parete frontale lunga del soggiorno in gran parte già coperta di quadri; lì c'era un vuoto, giusto per la misura di questo dipinto, accanto a un tondo su cartone con un frutto non-morto. Gli altri quadri di Demeter sono rimasti nella vecchia abitazione che man mano si va svuotando, due o tre tele sono attaccate a uno strato di medium density da quattro millimetri, dipinte in un formato molto allungato. Le incollai anni fa per stabilizzarne l'imprimitura che in alcuni punti cedeva, la tela dalla quale trassi i ritagli era arrotolata molto stretta, ciò aveva causato la fessurazione di alcune zone dell'imprimitura già non molto elastica, ma vi lavorai ugualmente sopra sfruttando le linee casuali di crepe e fessure, un allentamento, quasi un distacco che pensai di coinvolgere e che dava all'ambiente nel quale si trovava la Demeter, ancora per mare o appena naufragata sulla spiaggia, l'allarmato sentore di un grido inumano, l'unica cosa viva insieme alla luce radente o di spalle che l'urlo e la sua eco moltiplicavano.

La bocca e i canini, la gola pecten rossa, il cactus, il pipistrello, la donna (Mina) in attesa apre la sua nudità. La prua della nave con il dito indicatore; lungo quella direzione si deve andare, in avanti, per scoprire, conoscere, non il dito creatore (di che?) e accusatore, imbalsamatore, tu non devi, tu non puoi conoscere, stattene lì, sdraiato come un bambolotto, e butta via il cervello che tanto non ti serve. E la mano che scrive, sopra il timone, il suo giornale di bordo: l'ultima parte del quale è un foglio che verrà chiuso in una bottiglia di vetro. Alcuni passi da trarre dal libro.

La Demeter e le casse di terra. Dracula, il cane (è un lupo) nero, Stoker non ne indica il colore, ma io così lo immagino, sì (sta scritto, questo inciso, con la subitanea trascrittura variato di poco, nel foglio, come una linea che attraversa la guancia partendo dall'angolo sinistro della bocca, l'espressione di un ghigno o una cicatrice, oppure la tenda di un sipario, quella di destra, a sinistra nelle colature del penultimo quadro di Demeter), così è, così deve essere; Lucy la vittima; Mina che avverte l'odore di Dracula. La luna che tutto ciò guarda impassibile. Che luna ci sarà stasera 25 febbraio? Ora smetto di scrivere, ho voglia di leggere alcune pagine del romanzo di Stoker, mi trovo in casa, non in galleria dove nel tardo pomeriggio ho dato inizio a questo testo per la mostra che farò dopo Feliscatus-Nietzsche, sempre firmata da Sostra, questa successiva si chiamerà Demeter, appunto.

1897, Nietzsche era a gran titolo ─ ma quanti titoli che oggi sono leggi! ─ nel già compiuto, da tanti anni nel binomio Nietzsche-Dioniso, nessun bisogno di pensare, nessuna incomprensione da nutrire e porgere, le mani disponibili per la musica ma non per la scrittura. Anche Demeter la firmerò come Sostra. Sostra è il mio nome. Ore 22.25 del 25 febbraio 2018. Buona fortuna stanno dicendo prima dell'interruzione pubblicitaria. Cos'è mai la fortuna? È svegliarsi al mattino e vedere che i piedi e la testa funzionano, fanno il loro dovere: una comincia a pensare, gli altri a camminare.

Adunati ho i ricordi ─ ora però li spingo al largo, altro che arriva deve trovare posto ─ mercé una copertina che mi appare amica da sempre, incorniciata nell'intorno nero come un vezzo di cui andar fieri, 1/3/18.

Il taglio verticale ai lati nella riproduzione del libro della Newton, che correttamente precisa "particolare" nella didascalia, non dà al dipinto un aspetto sgangherato, cosa che invece succede tagliando porzioni in alto e in basso.

Ne possiedo tanti di libri su Dracula di Stoker; nei giorni scorsi, dopo aver cliccato e aperto Librinlinea, ho richiesto il primo della breve lista nella disponibilità della biblioteca di Tortona; pubblicato nel '93, risente della visione spettacolare e barocca di Coppola con un fotogramma del film a tutta copertina. Questo film l'ho guardato e riguardato, preferisco però Langella-Badham, Lugosi-Browning, Herzog, quella contaminante pellicola-disastro "Nosferatu a Venezia" m'impone di togliere Kinski dall'accoppiata attore-regista; la Hammer, i colori della Hammer e le miniaturistiche scenografie teatrali dai bei rossi, neri e grigi-azzurri di un cinema che è appunto teatro tannico, con brividi adolescenziali di semplici trame in luoghi immaginari di accattivanti tinte, albini miti e tramonti vichinghi; lo sono io un po' vichingo, io che tramonto. Ma il libro in quell'edizione non è spettacolare; ha il biglietto da visita barocco, nel limite sdolcinato che quella copertina suggerisce (quando poi l'intenzione barocca del diciassettesimo secolo è tutta un tirare a fottere il cervello attraverso l'ubriacatura degli occhi imbalsamati, turlupinare, imbrogliare le carte, confondere e calpestare l'intelligenza che deve essere mansueta, acritica, ammaestrabile), e triste ─ sì, sono sinonimi, malgrado l'apparenza, l'apparenza può ingannare, va vista in profondità e prospettiva, negli esiti, in ciò che provoca e produce, volente e volente, quell'indirizzo-trappola illusivo, ossia la vulnerabilità sovrabbondante e sfondavolte ─, assai triste e precaria, decadente e dimessa, quell'ingannevole e diverticolosa esuberanza. Maledetti orpelli, cimici e tralicci. Dracula è teatro, non cinema salvifico. La salvezza alla fine, ma di che? Da chi salvarsi? Forse dai costruttori di fobie? Forse dagli odiatori della conoscenza? Assai triste, sì, e gracilento nella sostanza lo squadrone di artisti servi posto in opera; priva di nervatura, quella recrudescenza di viltà e torture, e grigiore di pietre a tenaglia ─ a proposito di torture e supplizi inflitti, ma quale abbraccio? ─ la cui dimensione non li alza mancu n'anticchia dal nulla di fondamenta nella terra sanguinaria sulla quale poggiano; e i rigatoni bronzei impennacchiati di piccolezze, lo so, avrei dovuto dire tortiglioni, ma mi è piaciuto fare riferimento a certo cinema dei cosiddetti grandi, che, seppure nell'ironia di facciata, non riesce a fare a meno di strisciare ai piedi del sempreniente; e quella pittura di muffa che germoglia, sta in aria perché non riesce a stare in piedi. Debole, debole, lì come spessore e qualità della carta, non quella che Mina-Winona Ryder stacca e lascia andar via, né l'altra di Dracula-Gary Oldman bruciata dal fuoco di candele sommerse, tra effusioni di muti fotogrammi colorati a mano e nastri in celluloide del fu Méliès; sa di pubblicità televisiva, di malgirati sceneggiati su Dracula, peggio ancora recitati, da oratorio, la stampa di quel libro è dimessa anch'essa, ha errori di impaginazione e poca cura. Nel tempo di prima, nel tempo del subito poi, nidi di roccia negli spenti deserti, ho pianto vedendoli fiorire.

Invece, un bel po' di anni fa, trovai al mercato una edizione di questo romanzo in forma di diario a molte voci che mi costò appena un euro, meno di quanto valesse, con disegni di Sätty e note di Leonard Wolf. In una delle pagine del libro viene sottolineata la "straordinaria bellezza" ─ che condivido ─ della frase detta da Mina in risposta alla richiesta di Van Helsing di descrivere il luogo in cui lei, sotto ipnosi, in quel momento sentisse di trovarsi. Non lo so, dice, il sonno non ha luogo che può chiamare proprio. Utilizzai queste parole come titolo di una mostra che a Dracula dedicai nel 2010 ad Alessandria, nei locali sotterranei della libreria Mondadori.

 

Nota 1 da pagina 1, trentaquattresimo rigo e una mosca, anche il punto è una mosca. Il quadro si trovava addossato al muro dietro il mobile, con la parte dipinta dal muro protetta, unico spettatore, per anni, per decenni, di quella scena che avrebbe potuto avere mille titoli e uno, si sarebbe potuta chiamare in mille modi e uno solo, in quel preciso attimo, con quei due personaggi di spalle, la quercia, la luna, le radici staccate da terra e in controluce, la proporzione quadrata, il momento della conoscenza, del quadro, della riproduzione, del ritrovamento, in quel preciso momento del ricordo tra nuovi muri, e porte, e finestre, e gli esterni innevati, ora sì, ci sono, all'intimità ─ questo è esplorare il recente passato, pesarlo, confermarlo ─, alla scoperta, alla rappresentazione, al tempo dell'eterno ritorno. È un piacere che da tanto non provavo, quello della luce fioca, del silenzio, della tranquillità, dell'assenza di ogni mostruosità ─ ventennale a cavallo di due millenni, in cima all'uno e nel fondo dell'altro ─ dal nome atroce e odioso. Il piacere, adesso, della vita normale.

 

Non venite a proporre letture di moto di nervi e abbracci spaziali o mortali, non parlatemi di dinamismo, non m'interessa; l'aspetto è rachitico, ed è quel che conta. Più efficace il dipinto con lo stesso tema, sebbene sia evidente la sproporzione della testa di Anteo rispetto al corpo, come nella scultura. Ungulato l'artista ─ aviaria ─ avrà visto tutti con le spalle di pollo? ─ avrebbe dovuto accentuare i piedi, punti di contatto con il suolo e di trasmissione della forza che dalla madre Gea poteva assorbire.

 

Della sua terra d'origine Dracula non porta l'aria ma la terra, non la raffinata aria azzurra e boschiva, ma cinquanta casse di umida, transilvana, cimiteriale terra antica di una cappella diroccata col tetto scoperto.

La casa dove abitavo in Sicilia si svolgeva una parte su tre e una parte su due piani; di questa seconda, il primo piano era la sopraelevazione del soggiorno e della cucina, con tetto di travi di legno e tegole che tra una e l'altra lasciavano filtrare la luce del sole in un debole chiarore diffuso, arioso e alto da un lato, quasi ad altezza di braccia dall'altro. Alle travi venivano appesi trecce di fichi secchi, collane di pomodori a grappoli, mazzi di origano e utensili di varia natura. Provvisto di forno a legna di mattoni, aveva il pavimento in cemento non piastrellato, e nel suo spazio trovava posto un po' di tutto, compresa, in una zona non marginale, la mia montagna di fumetti. Per un certo periodo vi ebbi anche lo studio ─ chiamiamolo così ─ di pittore. Tra innumerevoli oggetti di ogni genere vi trovava pure posto una robusta cassa di legno, sarà stata un metro per un metro per una quarantina di centimetri di altezza, piena di sabbia, in mezzo alla quale mio padre sistemava le arance che portava dalla campagna affinché si conservassero a lungo.

 

La base formale, naturalmente, sta nell'isola ammantata di bianco dell'87; la barca che smette di viaggiare e coprendosi con la sua vela si fa isola di legno, terra, tessuto e alberi vivi in rotta verso la crescita. Un'isola che intende stare nella visiva prossimità del mare; lontano neanche tanto, vicino non più del necessario, vicino quanto basta, lontano non più dell'urgenza che conduce al necessario.

 

Cose inutili, utili, necessarie, indispensabili. Di tutto si può fare a meno, fuorché della conoscenza. Di questo si può fare a meno, di quello si può fare a meno, pure di quell'altro si farà a meno, e di quell'altro ancora. Si fa a meno della virtute, ma non della canoscenza. Si deve fare a meno di quel tipo di virtute ostruente. Sì all'ultima virtute piantata in piedi nell'infinito sconosciuto di Ulisse, no a quella dell'Alighiero imitatore plurale, Danti litteram e adesivo accartocciato capelluto d'inutili rime, dimezzate terzine e fasulle stelle. Uno faceva ridere, gli altri no. Inferno e caos, le Carceri di Piranesi. Maggiolino, giaguaro, maggiolino.

 

Anche questa volta, gira tredici volte e rigira una sola ad alta voce, ho finito con la u di ubermensch nella non programmata disposizione della scrittura sul foglio. I punti che mancano alla u sono già ampiamente distribuiti nel testo non-morto.

Sostra

 

Ritaglio del Dailygraph 8 agosto [incollato sul diario di Mina Murray]

Da un corrispondente

Whitby

Una delle tempeste più violente e improvvise di cui si conservi ricordo si è appena scatenata in questo luogo, con conseguenze assai strane e insolite. Il tempo era afoso, ma niente di eccezionale per il mese di agosto. Sabato la serata è stata splendida, e una gran quantità di gitanti ieri si è recata in visita ai boschi di Mulgrave, alla Baia di Robin Hood, al Rig Mill, al Runswick, a Staithes, e nelle varie località nei pressi di Whitby. I vaporetti Emma e Scarborough facevano escursioni lungo la costa, e c'era una folla insolita che andava e veniva da Whitby. La giornata è stata particolarmente bella fino al pomeriggio, quando alcune frequentatrici abituali del cimitero di East Cliff, dal cui elevato promontorio si ammira l'ampia distesa del mare a nord e a est, hanno richiamato l'attenzione sull'improvvisa comparsa di trombe marine alte in cielo, in direzione nord-ovest. In quel momento il vento soffiava mite da sud-ovest, quella che nel gergo dei meteorologi è chiamata "forza 2: brezza leggera". Il guardacoste di servizio ha fatto subito rapporto, e un vecchio pescatore, che da oltre mezzo secolo scruta i segni del tempo dalla East Cliff, ha previsto con tono estremamente deciso l'arrivo di una tempesta improvvisa. Il momento del tramonto è stato bellissimo, grandioso, con le sue masse di nubi dagli splendidi colori, tanto che si è creato un vero assembramento lungo la passeggiata che porta alla scogliera del vecchio cimitero. Tutti volevano godersi quello splendore. Prima che il sole si immergesse sotto la massa scura di Kettleness, che ad ovest si staglia spavalda contro il cielo, la sua discesa è stata accompagnata da miriadi di nubi con tutti i colori del tramonto ─ rosso fiamma, porpora, rosa, verde, viola, tutte le sfumature dell'oro; qua e là, masse non grandi, ma all'apparenza di un nero totale, d'ogni forma, ben delineate, quasi fossero sagome colossali. Un'esperienza che i pittori non hanno certo perduto, e senza dubbio alcuni schizzi del Preludio alla Grande Tempesta faranno mostra di sé sui muri della Royal Academy e del Royal Institute il prossimo maggio. Più d'un capitano ha deciso lì per lì che la sua "bagnarola" o il suo "mulo" (così chiamano i vari tipi di barca) sarebbe rimasta nel porto finchè la tempesta non fosse passata. A sera il vento è caduto del tutto, e a mezzanotte c'era una calma mortale, un calore soffocante, e quella tensione costante che, all'avvicinarsi del temporale, assale chi ha una natura particolarmente sensibile. Sul mare si vedevano soltanto poche luci, perché anche le navi a vapore da cabottaggio, che di solito navigano in prossimità della costa, si tenevano al largo, e in vista solo pochi pescherecci. L'unica vela era una goletta straniera, con tutto il velame spiegato, che pareva andare verso ovest. La stolta arditezza o l'ignoranza dei suoi ufficiali ha fornito ricco argomento di conversazione fintanto che è rimasta in vista, e si è fatto ogni tentativo per segnalarle la necessità di ridurre le vele davanti a quel pericolo. Prima che la notte calasse su tutto, è stata vista rollare dolcemente al gonfiarsi ritmico delle onde, con le vele che sbattevano pigramente al vento.

 

Inerte come una nave dipinta su un oceano dipinto.

 

Poco prima delle dieci l'immobilità dell'aria è aumentata fino a farsi opprimente, e il silenzio era così totale che si udiva distintamente il belato di una pecora nell'entroterra o l'abbaiare di un cane in città, e la banda sul molo, con la sua allegra musica francese, era una vera stonatura nella grande armonia del silenzio della natura. Poco dopo mezzanotte è giunto dal mare un suono strano, e in alto, sopra le nostre teste, l'aria ha cominciato a trasportare uno strano rimbombo, fievole e sordo.

Poi, senza alcun preavviso, è scoppiata la tempesta. Con una rapidità che, al momento, è sembrata incredibile, e anche ora pare impossibile concepire: all'improvviso, l'aspetto tutto della natura si è fatto convulso. Le onde si sono levate in un crescendo furioso, accavallandosi le une sulle altre, finché in pochissimi minuti il mare, fino ad allora vitreo, si è trasformato in un mostro ruggente e divorante. Onde schiumanti di bianco si sono abbattute impazzite sulle distese di sabbia, arrampicandosi fino alle rocce sporgenti; altre si sono infrante sulle banchine, e la loro spuma ha spazzato le lanterne dei fari svettanti sul limitare di ciascun molo del porto di Whitby. Il vento ruggiva con rumore di tuono, e soffiava con tale forza che solo con difficoltà gli uomini, anche i più forti, riuscivano a tenersi in piedi, o ad aggrapparsi con mani salde ai montanti di ferro. Si è capito allora che era necessario sgombrare le banchine da tutta quella massa di spettatori, oppure le fatalità di quella notte si sarebbero moltiplicate in maniera imprevedibile. Ad aggravare le difficoltà e i pericoli del momento, ammassi di nebbia erano sospinti dal mare verso terra ─ nubi bianche, umide, che si distendevano spettrali, così fredde e umide da far pensare con un minimo sforzo d'immaginazione che gli spiriti dei dispersi in mare stessero sfiorando i loro fratelli viventi con le viscide mani della morte, e più d'uno rabbrividiva mentre le spire di nebbia si diffondevano. A momenti la nebbia si diradava, e si riusciva a scorgere, fino a una certa distanza, il mare rischiarato dai lampi, che ora cadevano numerosi e rapidi, seguiti da scoppi improvvisi di tuono, al punto che tutto il cielo pareva tremare, scosso dai passi pesanti della tempesta. Alcune scene rivelate dai lampi erano di una grandiosità incommensurabile e di incredibile interesse ─ il mare, che saliva alto come le montagne, lanciava verso il cielo ad ogni ondata enormi masse di schiuma bianca, che la tempesta pareva strappar via e far vorticare nello spazio; qua e là una nave da pesca, con la vela a brandelli, correva impazzita alla ricerca d'un rifugio prima che la raffica esplodesse; di tanto in tanto, le ali bianche d'un uccello marino sballottato dalla tempesta. Sulla sommità dell'East Cliff il nuovo riflettore era pronto, ma non era ancora stato provato. Gli ufficiali incaricati l'hanno messo in funzione, e nelle pause concesse dall'avanzata della nebbia hanno spazzato col suo fascio di luce la superficie del mare. Una volta o due si è rivelato assai utile, come quando un peschereccio, sott'acqua fino al parapetto, si è precipitato nel porto, e grazie al fascio di luce che lo guidava ha potuto evitare il pericolo di schiantarsi contro il molo. Man mano che una barca raggiungeva la sicurezza del porto un urlo di gioia si levava dalla massa di gente sulla spiaggia, un urlo che per un momento sembrava fendere l'uragano e poi veniva spazzato via dalla sua furia. Ben presto il faro ha scoperto a qualche distanza una goletta con le vele spiegate, all'apparenza la stessa nave che era già stata notata in precedenza quella stessa sera. Il vento ormai era girato a est, e c'è stato un brivido tra gli spettatori sulla scogliera, quasi percepissero il terribile pericolo in cui si trovava la nave. Tra la goletta e il porto si stendeva la grande, piatta scogliera contro la quale molte buone navi, di quando in quando, si sono schiantate. Con il vento che ormai soffiava da quella direzione, era quasi impossibile che la goletta riuscisse a imboccare l'entrata del porto. Si avvicinava l'ora dell'alta marea, ma le onde erano così alte che laddove si creava una depressione quasi si vedeva il fondo della spiaggia, e la goletta, a vele spiegate, correva a velocità tale che, per usare le parole di un vecchio lupo di mare, "da qualche parte doveva arrivare, fosse pure solo all'inferno". Poi è arrivata dal mare un'altra ondata di nebbia, più fitta delle altre ─ un cumulo di nebbia umida e fredda, che pareva richiudersi su ogni cosa come un drappo funebre, lasciando agli uomini solo il senso dell'udito, perché il ruggito della tempesta, lo schianto del tuono, e il rombo dei possenti mantici hanno invaso quello stillante oblio con maggior violenza di prima. I raggi del riflettore restavano fissi sull'entrata del porto, dal molo est, dove ci si aspettava la tragedia, e tutti sono rimasti in attesa, trattenendo il respiro. Il vento improvvisamente ha piegato a nord-est, e il resto della nebbia si è disciolto nella raffica; e poi, mirabile dictu, tra i due moli, balzando di onda in onda nella sua corsa a capofitto, la strana goletta è schizzata davanti alla raffica, a vele spiegate, e ha raggiunto la salvezza del porto. Il faro l'ha seguita, e un brivido ha percorso tutti coloro che l'hanno vista, perché legato al timone c'era un corpo, con la testa reclina, che ondeggiava in modo orribile, avanti e indietro, a ogni movimento della nave. Sul ponte non si scorgeva altra forma. Un timore immenso è sceso su tutti, quando si è capito che la nave, come per miracolo, aveva trovato il porto, e a guidarla, null'altro che la mano di un morto! Ma tutto questo è accaduto molto più in fretta di quanto ci voglia a scrivere queste parole. La goletta non si è fermata, ha continuato a correre attraverso il porto, si è scagliata contro il cumulo di sabbia e ghiaia ammassato da tante maree e tante tempeste in quell'angolo sud-est del molo proteso sotto l'East Cliff, quello che la gente del posto chiama Tate Hill Pier.

Naturalmente c'è stato un grande schianto quando il vascello è finito contro i cumuli di sabbia. Ogni pennone, cordame, straglio si è teso, e parte della zavorra è caduta giù con fragore. Ma, stranissimo a dirsi, nel momento stesso in cui la nave ha toccato la spiaggia, un cane enorme è saltato sul ponte uscendo dalla stiva, quasi fosse stato scagliato fuori dall'urto; correndo verso prua, è saltato giù sulla spiaggia. Ha puntato in direzione della ripida scogliera, laddove il cimitero inclina tanto ripidamente sul sentiero per il Molo Orientale che alcune delle piatte pietre tombali ─ i "lastroni" come li chiamano nel dialetto di Whitby ─ pencolano letteralmente dove la roccia sottostante si è sgretolata; il cane è poi scomparso nell'oscurità, che oltre il raggio del riflettore pareva ancora più fitta.

Bram Stoker, Dracula

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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